luna bianca luna nera è la luna del calendario, quella di tutti i giorni, perché in questo blog si parla di ciò che succede e di come lo sentiamo.
l'una bianca, l'una nera: qualcosa ci piace, qualcos'altro invece no. perché anche la luna ha un suo fondo di inquietudine.

sabato 27 ottobre 2012

Italiani brava gente: popolo saggio o indolente?

Mario De Biasi – Gli italiani si voltano – Milano 1954


“La servitù, in molti casi, non è una violenza dei padroni, ma una tentazione dei servi”. Indro Montanelli


Taluni osservano, in parte a ragione, che in quanto italiani non siamo in grado trasmutare l’indignazione nella necessaria e conseguente azione a coronamento della stessa. Buoni solo a parlare, a dar sfogo al piagnisteo, arte a dir poco patetica e inconcludente.

Taluni, obiettano, in parte a ragione, che in quanto italiani non abbiamo la cultura, né la formazione alla rivoluzione essendo avversi alla violenza, cedendo alla forzata attesa, fin’anche all'estenuante sopportazione del sopruso, qualunque sia la sua origine.

Le risposte degli italiani, così, sarebbero naturalmente ponderate, non tanto per saggezza, quanto piuttosto per una sorta naturale indolente sopportazione e abitudine all'utile servilismo. L’attesa del paradiso resta un’attesa utile, alle finanze come all'arte.

Gli italiani così sarebbero come alla sommità di bivio, accomunati da un’unica lingua e una duplice natura. Spesso accade che i due fenotipi coincidano, come in una sorta di schizofrenico sdoppiamento della personalità.

Chi dunque vincerà difronte al disastro economico e sociale che ci rende ostinatamente servili, allo stesso tempo indolenti, piagnoni inconcludenti, pazienti al sopruso, riluttanti alla violenza, instancabili sognatori, incredibili artisti e indefessi inventori, tanto da essere ciclicamente fottuti dal peggiore degli imbonitori e pur sempre pronti a ricominciare daccapo?

Giunti a questo punto (l’ennesimo), un po’ di sana cattiveria, una buona dose di (auto?)ironia, non guasta. E magari aiuta a meglio sopportare e digerire l’amaro boccone, quando ce ne dovesse essere bisogno.


mercoledì 7 marzo 2012

Femminismo prêt-à-porter

Un tempo motore non immobile, anche discutibile ma sempre vivacemente dialettico, della rivoluzione sociale e sessuale dei mitici anni Sessanta e Settanta, il femminismo ai giorni nostri sembra ormai defunto.
Eppure sappiano, coloro che non riescono proprio a consolarsi per la pericolosa latitanza di valide idee di stampo femminista, che esiste una compagine di donne ucraine che la recente rielezione di Putin ha posizionato nell’occhio del ciclone: si tratta delle Femen, sorta di novelli city angels al femminile che propugnano, o quanto meno sono convinte di farlo, «l’aggregazione delle giovani donne» attraverso «la consapevolezza e l’attivismo sociale nonché lo sviluppo culturale e intellettuale», che intendono proporre un’espressione di sé «basata su coraggio, creatività, efficienza» nonché sull’immancabile «shock» che ai tempi nostri è ingrediente fondamentale di ogni protesta che si rispetti.
Belle, molto bionde, giovani e tatuate, le signorine di Femen si autoproclamano il maggior gruppo femminista dell’Ucraina e si pongono l’ambizioso obiettivo di diventare il movimento femminista più influente in Europa. E ai seggi presidenziali in Russia le suddette femministe in jeans attillati si sono prodotte nell’ormai consueta protesta che le ha viste entrare vestite, spacciandosi per giornaliste, per poi esporre il seno nudo imbrattato di lodevoli scritte antipresidenziali di fronte alle solite onnipresenti telecamere.
Le suffragette in topless non sono nuove a questo genere di azioni; ma c’è di più: questa singolare forma di protesta è addirittura istituzionalizzata dalle Femen, il cui slogan suona pressappoco come «venimmo, ci spogliammo e vincemmo», e impiegata a più non posso da donne tutte giovani, tutte graziose, tutte snelle e tutte sexy, insomma delle perfette Winx caucasiche, supereroine interstellari coi capelli al vento che testualmente si battono come novelle amazzoni per «creare le condizioni più favorevoli affinché le giovani donne possano unirsi in un gruppo la cui idea principale è il mutuo sostegno e la responsabilità sociale, e che riveli i talenti di ciascun membro del movimento». Quali siano questi talenti è stato ampiamente mostrato ai seggi delle presidenziali sovietiche, con o senza piercing al capezzolo.
Niente di male, beninteso, a mostrare il seno in un gioco che per molte donne può essere anche divertente e addirittura piacevole: ma se tutto ciò è femminismo, allora il morto di cui sopra è stato tramutato in zombie. Uno zombie cui non resta, viste le grazie delle novelle femministe prêt-à-porter del terzo millennio, che rincorrere le signorine ucraine con la bava alla bocca come nel miglior filone dark del Bela Lugosi d’annata per poi ritrovarsi impalato giusto in mezzo al petto, un petto non più giovane e dove il seno ormai è cadente, e battere infine in ingloriosa ritirata verso il dissacrato cimitero.
Mano pietosa che poni un fiore sulla tomba del defunto femminismo, benignamente provvedi, già che ci sei, anche alla lapide di tutte le giovani donne il cui modello di lotta femminista è costituito dallo spogliarello di protesta di ragazzine che somigliano alle Barbie (o meglio alle Bratz), hanno un nome più adatto ad una band di lesbo-rock che ad una compagine di pasionarie e vestono Pinko, Guess e Miss Sixty: degli anni d’oro del femminismo non sono rimasti che i jeans. Amen.
Pardon, Femen.
 

giovedì 1 marzo 2012

I No Tav e il mistero delle porte killer

Le grottesche «tragedie sfiorate» all’italiana includono vari fenomeni di cronaca tra cui misteriose sparizioni di preziose reliquie, trafugazioni di salme di noti personaggi della tv, nuovi anni salutati a suon di revolverate meglio se all’interno di canne fumarie ancora rivestite del vecchio eternit, partite di calcio un po’ troppo turbolente e infine, last but not least, il mistero delle cosiddette porte killer.
Le porte killer, già colpevoli di una lunga serie di avventure potenzialmente o effettivamente letali a carico del personale e dei passeggeri delle nostre beneamate ferrovie nazionali, sarebbero nientemeno che i varchi di accesso ai treni o meglio ai vagoni dei treni, ossia in parole povere, come dice il nome, le porte: quelle che per mezzo di sofisticati comandi si aprono e chiudono a richiesta. O quantomeno dovrebbero. Perché, tanto per restare in tema di cronaca, è successo che la porta di un treno della prestigiosa flotta delle Frecce, orgoglio e vanto dell’Alta Velocità nostrana, invece di chiudersi ed aprirsi appropriatamente per compiere il proprio dovere di porta, ha deliberato di staccarsi dai cardini che la ospitavano e di cadere con gran clamore dal treno che in quell’istante, trattandosi appunto di un treno dell’Alta Velocità, sfrecciava intorno ai 250 km orari ignaro dell’ammutinamento di uno dei suoi più importanti componenti.
Stavolta, come altre volte, la tragedia è stata soltanto sfiorata.
Ma sfogliando gli annali degli addetti del settore si viene a scoprire una serie di infortuni anche mortali in cui sono state coinvolte le ormai famose porte killer dei treni e che hanno fatto gridare allo scandalo i sindacati esasperati dai continui tagli del personale, nella fattispecie di quello addetto alla sicurezza: la frequenza degli incidenti dovuti alle porte che non si chiudono, o che si chiudono fin troppo bene addosso alle membra del malcapitato di turno, giustifica pienamente il nomignolo di cui sopra.
D’altra parte, con buona pace dei sindacati, la storia si ripete e la responsabilità in questi casi è come l’Araba Fenice: che vi sia ciascun lo dice, ove sia nessun lo sa. Le categorie più accreditate, in Italia, sarebbero i comunisti seguiti a ruota dagli omosessuali con terzi a pari merito le donne e gli atei. E invece, a sorpresa, ecco che compare una nuova specie di autentici capri espiatori all’italiana, che non sono i becchi delle Camosciate delle Alpi bensì, per andare geograficamente poco lontano, i No Tav impegnati proprio in questi giorni in virulente proteste contro i cantieri della Val Susa.
Si può essere o non essere d’accordo con i No Tav ma il merito che è bene riconoscere loro è di aver puntato il dito sullo sperpero esagerato di risorse economiche in progetti, come quello dell’Alta Velocità, che rischiano poi, intascato il malloppo e ingrassati i cammelli, di rimanere cattedrali nel deserto abbandonate a se stesse, difficilmente fruibili, del tutto inutili oppure, come insegna la vicenda delle porte killer, persino pericolose.
E invece, candidamente, il Gruppo Ferrovie ricorda a chi se ne fosse scordato che la porta che si è staccata dal treno Frecciargento è esattamente quella «imbrattata dai manifestanti No Tav» durante la protesta del 27 febbraio scorso.
Comunque vada l’inchiesta sul reo confesso più famoso del momento, e cioè la porta killer, chi può dormire sonni tranquilli in questa vicenda sono proprio loro, i No Tav; accusati in pratica di saper piegare un cucchiaino con la forza del pensiero, non resta loro che approfittare del superpotere di far cadere le porte dei treni a proprio vantaggio: lasciarci qui senza più nemmeno un vagone praticabile e passare il confine con la Francia in bicicletta, alla ricerca di un più civile contesto. Per un po’ non sentiremo parlare di porte killer.
 

mercoledì 29 febbraio 2012

Tango e furlana per le ceneri in laguna

«La terra ai vivi» era l’azzeccatissimo slogan di qualche anno fa del benemerito ente morale Socrem, dove la cremazione cui si allude nel nome non riguarda l’Antica Gelateria del Corso bensì la civile, antichissima pratica di ardere i corpi dei defunti: la terra è dunque riservata ai vivi e per contro ai morti spetterebbe, secondo un altro poetico adagio del settore, «La purezza del ricordo».
Prassi antica e comune a tante culture, la cremazione, come forse non molti sanno, è regolamentata da apposita legge nazionale, per la precisione la n° 130 del 30 marzo 2001, nonché avallata da esplicito sigillo di approvazione pontificia il 5 luglio del 1963, allorché papa Paolo VI in persona dichiarò testualmente che «l’abbruciamento dei cadaveri, come non tocca l’anima e non impedisce all’Onnipotenza Divina di ricostruire il corpo, non è cosa contraria alla religione cristiana».
Tali autorevoli parole non devono essere mai giunte alle orecchie del parroco della chiesa di San Pio X a Marghera, il quale ha vietato l’esecuzione di un funerale nella chiesa da lui amministrata con la motivazione che la defunta avrebbe espresso il desiderio di essere cremata e, in particolare, di avere le proprie ceneri disperse in laguna: eventualità impossibile dato che, secondo il solerte sacerdote, la dispersione delle ceneri sarebbe «vietata dalla Chiesa». Il rifiuto del parroco avrebbe innescato una furlana turbinante, una frenetica girandola non molto carnevalesca e neppure, è lecito supporlo, molto divertente per il marito della defunta: una gitarella non propriamente di piacere alla ricerca di una chiesa che si degnasse di ospitare le legittime ultime esigenze della signora.
Poco importa che la legge nazionale di cui sopra permetta, all’articolo 2, la dispersione delle ceneri dei defunti e che in tal proposito vi sia persino, a fare da eco a questa legge, il regolamento comunale di polizia mortuaria che a Venezia dispone di liberare le ceneri a 700 metri dalla costa. Non importa: evidentemente impaurito dalla circostanza che il vento lagunare possa riportare indietro al mittente gli impalpabili resti all’atto della dispersione, oppure schiacciato dalla mole non propriamente cinerea di due papi tutto sommato, rispetto ad altri, in odore di comunismo, il parroco ha nicchiato e feretro e famigliari hanno dovuto ripiegare su una più accogliente chiesa di Mestre.
Trasferita la defunta, per il parroco di San Pio X non resta che evocare lo spettro del papa che dà il nome alla sua parrocchia, magari a braccetto col fantasma di Paolo VI; all’affermare di quest’ultimo che «non saremmo cristiani fedeli se non fossimo cristiani in continua fase di rinnovamento», immaginiamo il primo sorridere sornione e fare eco, a proposito della gran novità di quegli anni ossia lo scandaloso tango, «mi me pàr che sia più bèo el bàeo a ‘ea furlana; ma nò vedo che gran pecài ghe sia in stò novo bàeo!» (A me sembra che sia più bella la furlana; ma non vedo che gran peccato vi sia in questo nuovo ballo). E il pretino convincersi che forse non c’è un gran peccato nemmeno nel disperdere le ceneri, visto che l’ha detto qualcuno prima di lui. Disgraziatamente non in veneto, ma è stato detto.
 

giovedì 23 febbraio 2012

Viene prima Giovanardi o la gallina?

A stento si può credere che sia vera la notizia secondo la quale il senatore Carlo Giovanardi avrebbe organizzato, alla Camera dei Deputati, un convegno dal significativo titolo di «Viene prima l’uomo o la gallina?» in evidente polemica con gli animalisti: e invece è tutto vero.
Secondo le teorie di Giovanardi, passato dal consueto e ormai trito rancore verso gli omosessuali ad una vera e propria crociata in favore del consumo di carne, gli animalisti ed i vegetariani ostacolerebbero la diffusione del made in Italy: stando a Giovanardi, infatti, «il settore zootecnico rischia di andare in crisi per una martellante campagna animalista che contesta alla radice, ad esempio, la possibilità di utilizzare le pelli di animali per il made in Italy». A fare eco a Giovanardi ci si è messo anche il nutrizionista Giorgio Calabrese, intervenuto al convegno per sostenere che «la carne è fondamentale per far crescere i bambini, per mantenere gli adulti, soprattutto la donne nel periodo fertile e poi aiutare l’anziano a sostenersi nella longevità».
Come non averci pensato prima? Vegetariani e animalisti si uniscono ad abortisti ed omosessuali nella corresponsabilità del grave momento di crisi economica che il Belpaese sta vivendo.
L’idea in effetti è allettante: come non pensare a quanta fetta di mercato copre il consumo di bistecche alla fiorentina, boicottate dalle suddette categorie di individui antisociali a favore di una più misera ribollita? Per non parlare delle borsette di cuoio: senza l’intervento degli animalisti l’Italia potrebbe arrivare a competere addirittura con i cinesi nella produzione di pellame, devastandone il fosco strapotere internazionale dal sapore neocomunista.
Non fosse per i soliti anarchici, le teorie di Giovanardi risolleverebbero l’economia nazionale più e meglio di qualunque altra teoria socioeconomica. Sistemata è anche la crisi demografica: i tanti italiani che non riescono a diventare genitori sappiano infatti, per il tramite di un convegno organizzato ai fini del loro benessere non solo economico ma anche personale, che la carne rende più fecondi.
Che dire di fronte a tanta geniale semplicità? E’ l’uovo di Colombo.
E a quanti possano mai esprimere perplessità circa le idee che Giovanardi concretizza con grande impiego di denaro pubblico, il senatore, proprio come fece il celebre navigatore genovese a chi osò contestarlo per aver sistemato in piedi il celebre uovo ammaccandolo leggermente, non avrebbe che da rispondere: «Voi avreste potuto farlo, io invece l’ho fatto!»
   
 

martedì 21 febbraio 2012

Asparagi misogini per chi fa sesso a scuola

Da Bassano del Grappa, famigerata patria di un delizioso asparago bianco, è giunta nei giorni scorsi la piccante notizia che un preside di scuola media superiore avrebbe sorpreso due quindicenni in atteggiamento inequivocabilmente erotico nei bagni dell’istituto da lui diretto. L’esemplare punizione del gesto dei focosi giovani è stata, come ci si potrebbe attendere da un Nordest pulito, preciso e dove tutto è sempre in meticoloso ordine, nientemeno che la sospensione.
Trattandosi di argomento scolastico è bene aprire una parentesi linguistico-filologica sulle curiose stranezze dell’italico idioma.
Secondo un simpatico documento che gira per la rete evidenziando le sottigliezze della nostra articolata lingua, un cortigiano è un bonzo dell’imperatore giapponese mentre una cortigiana è ben altro, un peripatetico è un discepolo della scuola aristotelica mentre una peripatetica è ben altro, un uomo pubblico è un politico in vista mentre una donna pubblica è ben altro, un accompagnatore è il pianista della classe di canto mentre un’accompagnatrice è ben altro, un uomo disponibile è il marito ideale mentre una donna disponibile è ben altro.
Il preside in questione deve aver avuto ben in mente le suddette ambiguità della lingua italiana quando ha conferito la punizione ai due incauti giovincelli responsabili di atti osceni in pubblico luogo scolastico: un giorno di sospensione per lui, quattro giorni per lei.
La circostanza si commenta da sola: ma lungi da noi l’avanzare troppi sospetti di misoginia.
Immaginiamo invece che il reato commesso dalla ragazza, ritenuto evidentemente più grave di quello commesso dal ragazzo, sia stato punito dal solerte dirigente non in quanto reato sessuale, reso più ponderoso dalla discendenza della giovane dalla prima peccatrice di sesso appunto femminile, bensì per avere sovvertito il di cui sopra immacolato ordine nordico recandosi nella ritirata dei maschi anziché in quella, più consona, riservata alle ragazze.
Per tanta audacia la discendente di Eva si è dunque meritata una punizione maggiore rispetto a quella del suo giovane partner maschile che invece, entrando nel bagno a lui dedicato, non ha infranto nessuna regola sociale.
Ecco che in Italia tutto finisce a tarallucci e vino o, nel caso in questione dove compaiono protagonisti ancora minorenni, ad asparagi bolliti. Un po’ indigesti, è vero, ma che farci? D’altra parte gli asparagi a febbraio sono completamente fuori stagione.
 

lunedì 20 febbraio 2012

Sanremo ai tempi della crisi

Arenato come la nave Concordia in un terrapieno di sabbiose polemiche che, come il vento negli occhi, costringono a serrare le palpebre anche coloro che vorrebbero tenerle aperte, il Festival di Sanremo resta tuttavia un evento: chi non lo guarda comunque ne parla, e le canzoni sono già degli autentici tormentoni.
Tra lustrini, paillettes, trucchi shocking, abiti sontuosi, spacchi esagerati, totomutandine (ma la valletta di turno indossa la biancheria intima oppure no?), telepredicatori, nude look, comicità all’italiana, carismatici ospiti internazionali, fantasmagoriche luci a ritmo con le canzoni e un’orchestra da favola, come nemmeno più gli enti lirici possono permettersi, in tutto questo caravanserraglio di lusso sfrenato sorprende l’inattesa tendenza delle canzoni vincitrici degli ultimi due anni: tendenza alla critica sociopolitica e comunque all’attualità.
Quest’anno Emma canta il disagio sociale; l’anno scorso il professor Vecchioni, trionfatore inaspettato, raccontava l’attualità interna ed estera. Dopo gli anni di Marco Carta e Valerio Scanu, con testi dedicati all’immortale amore che sboccia nei cuori di chi si vuole bene, in tempi di crisi economica e sociale persino Sanremo vira su più consoni argomenti. E tra gli ospiti quest’anno si è vista persino una autentica icona, di sapore nettamente comunistoide, del pop sociale e impegnato, la grandiosa Patty Smith.

Ma sul perché la televisione nostrana, antico bengodi americaneggiante per i poveri immigrati albanesi degli anni Novanta, sia diventata persino in prima serata un baluardo, decisamente kitsch ma forse anche per questo così efficace, di trasmissione di valori tutto sommato democratici, nemmeno la crisi può dare una risposta.
In apparenza si ha l’impressione che poco sia mutato: gli onorari delle star alla faccia di chi, come canta Emma, non tira la fine del mese, sono sempre stratosferici; gli abiti sempre dispendiosamente esagerati; il mondo televisivo, vero inno alla plastica come materiale principe di questa società fasulla eppure, sorpresa, così tenace, è sempre fedele a se stesso e alla sua ipocrisia. Tuttavia qualcosa è cambiato e persino i miti della musica pop all’italiana, sotto le consuete due dita di cerone, in questi ultimi anni sembrano quasi ordinari. Gente qualunque. Persino Morandi, sebbene non certo colpito personalmente dalla crisi, somiglia quasi al vicino di casa che si incontra la mattina davanti alle cassette della posta condominiali.
Sarà magari un sogno ma forse, nonostante l’alto indice di ascolto, la televisione ha smesso di dettare legge su una realtà che ormai sfugge a qualunque legge ed è tornata ad essere se stessa: una scatoletta non vera, non autentica, non sofferente, un gioco che intrattiene e basta. Poi, una volta toccato il magico tasto off del telecomando, il sogno svanisce e gli italiani ritornano ad una realtà fatta di crisi economica, di difficoltà sociali, di ripensamenti del proprio esistere e, in definitiva, di cose che non durano: esattamente come i fiori recisi delle serre ponentine. E che, allora, tanto vale godersi finché ancora profumano.
 

sabato 18 febbraio 2012

Porno tandoori

Una volta toccò al nostro presidente del Consiglio,  il cavaliere disarcionato da una grottesca faccenduola di donnine a chiosa della quale l’amico Mike Bongiorno, se solo avesse potuto assistervi, avrebbe certamente commentato: caro Silvio, lei mi scivola sul pisello. Ora che le potenze mondiali aumentano, in occidente si tira la cinghia, si aggiungono posti a tavola e lo scranno dei signori fa spazio ai nuovi arrivati, ci giunge dall’India la notizia che un pugno di ministri, per l’esattezza due uomini e, udite udite, persino una donna, si sono dimessi dopo essere stati sorpresi a guardare un film porno in parlamento.

Evidentemente annoiati dalla seriosa circostanza cui la loro posizione li ha costretti ad assistere, ossia una seduta parlamentare incentrata sulla devastante crisi agricola che sta vivendo l’India, i tre moschettieri del sesso devono aver ben pensato di distrarsi con alcune immagini di signore non propriamente ammantate del tradizionale coloratissimo sari.

Singolare la posizione personale dell’unica donna fra i tre: ministro per la donna e l’infanzia, versione indiana delle nostre politiche sociali; ma quel che davvero fa quadrare i conti è l’appartenenza politica dei tre dimissionari, i quali guarda caso facevano capo al principale partito della destra indiana, quel Bharathya Janata Party che, in ossequio ai modi della ormai paradigmatica destra all’italiana, deve evidentemente aver pensato di unire l’utile al dilettevole coniugando il mondo del porno con l’esigenza, specifica nel caso della signora ministro, di dare un impulso al lavoro della donna. In effetti quale settore si può immaginare più efficace del set a luci rosse in quanto ad aumento del fabbisogno di manodopera femminile, possibilmente allo stremo e disposta a tutto o quasi?

E invece le alte dirigenze del partito non devono avere molto gradito la geniale linea di pensiero dei tre esponenti in questione, tanto da indurli alle dimissioni per motivi di reputazione. Pazienza: in India come nel Belpaese, all’origano o al curry, gli ingredienti di base sono sempre gli stessi e a noi italiani non resta che rimpiangere i tempi in cui non era il porno a entrare clandestinamente in parlamento, come nell’era di Berlusconi e di questo nuovo scandalo erotico all’indiana, bensì il viceversa: il parlamento, nella persona dell’onorevole Cicciolina, entrava nel mondo del porno e in un certo senso lo rendeva «normale». La differenza è sottile. Ma c’è.
 

giovedì 16 febbraio 2012

Il Festival della Censura Italiana

Da giorni il celebre cantautore nostrano Adriano Celentano è nell’occhio del ciclone.
Dapprima per l’esagerato compenso sanremese (peraltro destinato in beneficenza) che ha scandalizzato non pochi e già, mancando analoghe critiche auspicabilmente più costruttive sulle parcelle di altri personaggi quali modelle, calciatori, attori hollywoodiani remunerati non certo meno del Molleggiato, si cominciava a sentire puzza di bruciato. Ma l’incendio vero e proprio è divampato per le dichiarazioni che il cantautore ha snocciolato proprio durante la prima serata del Festival di Sanremo riguardo alcune testate cattoliche, in particolare Avvenire e Famiglia Cristiana nelle quali, secondo Celentano, «il discorso di Dio occupa poco spazio».
Puntare i riflettori sull’ipocrisia aleggiante su certi giornali non è un gesto facile: persino un personaggio del calibro di Celentano, un divo per famiglie invitato ad un programma per famiglie, mostra che in Italia dire la propria mette in pericolo: in specie quando la propria non è, guarda caso, quella altrui.

La focosa vicenda, comunque si concluda, è ben lungi dall’accendere un sanguigno ma piacevole e necessario dibattito sulla libertà di espressione, che ormai è la Cenerentola della società italiana.
Era appena rimasta sullo stomaco dei più delicati l’indigesta notizia che il Belpaese si troverebbe sessantunesimo nella classifica della libertà di stampa stilata per il 2011 da Reporter Senza Frontiere, abbondantemente superato da Giamaica, Namibia e persino da paesi ex comunisti come la Polonia e l’Ungheria, ed ecco che ora un altro amaro boccone turberà i sonni di quei pochi che ancora contestano la censura come modus operandi di una società ormai pericolosamente somigliante a famosi film di fantascienza come Farenheit 451 o Equilibrium: la bruttezza del dibattito che ha seguito le parole del Molleggiato, con accese richieste di pubblica ammenda, giri di frittate tali da far apparire le parole di Celentano come esse stesse censorie e altri ameni piatti tipici del Belpaese, serviti su un letto di insalata amara e accompagnati dalla solita indigesta salsa che è un mix di maleducazione e di orgoglio ferito tutto italiano, e tutto cattolico.

In mezzo a tanto sdegno, insperate parole di saggezza non derivano dalla bocca di politici, ecclesiastici o amministratori della cosa pubblica, bensì da un altro cantautore: Gianni Morandi, conduttore del Festival di Sanremo. Testuali parole di Morandi all’indirizzo del sermone del collega: «L’ho ascoltato, il suo discorso; sulle critiche ai preti era un discorso da cattolico osservante. Poi sulla chiusura dei giornali cattolici, lui pensa che si debba parlare più di spiritualità. Ognuno poi faccia le sue valutazioni».
Aprire bocca per cantare, anziché per urlare la propria offesa, certe volte fa bene. Alla libertà di espressione. Ma anche, per chi ce l’ha, alla fede.
 

mercoledì 15 febbraio 2012

Riduzioni parlamentari

Una semplice riflessione su questo articolo: http://www.repubblica.it/politica/2012/02/15/news/pd-lega_accordo_entro_2013_su_riduzione_parlamentari-29916467/?ref=HREC1-9 .

Credo che ridurre i parlamentari non sia una mossa totalmente buona per l’Italia: è vero che si risparmiano molti soldi pubblici, ma è anche vero che il potere resterebbe nelle mani di meno persone e quindi, se vogliamo, meno democratico. Si rischia di trovarsi con un’oligarchia impenetrabile, intoccabile e con un potere troppo facile.
Perché, anziché tenere pochi parlamentari privilegiati, non si pensa invece — dal momento che la legge è uguale per tutti — di togliere i privilegi a TUTTI i parlamentari e continuare a stipendiare TUTTI i parlamentari?

domenica 12 febbraio 2012

IOR, Monòpoli e Risiko

Lo IOR, che in questo caso non è l’Istituto Ortopedico Romagnolo bensì la solita Banca Vaticana ormai da anni agli onori della cronaca talvolta, ahinoi, in ossequio alle toghe cardinalizie cui fanno capo i vertici dello IOR, decisamente nera, fa ancora parlare di sé.
Circola infatti sul web la notiziola secondo la quale il celeberrimo Istituto per le Opere di Religione, ossia il braccio secolare economico del Vaticano, sarebbe uno dei maggiori azionisti della storica fabbrica di armi Beretta, secondo solo ai membri della stessa famiglia Beretta che ne detengono la quota maggiore.

I cardinali con la pistola in mano, in realtà, ormai non scandalizzano più nessuno. Dopo l’affare Enimont e i vari spostamenti di denaro, che non è lecito immaginare molto pulito, da banche italiane a istituti di credito in Svizzera e in Germania, dove evidentemente l’igiene monetaria viene curata con più affidabilità, dopo il fallimento del Banco Ambrosiano con il suo seguito di strane dipartite come il misterioso suicidio di Calvi, dopo le connivenze tra Marcinkus, il simpatico arcivescovo autore della lapidaria sentenza secondo la quale «non si può governare la Chiesa con le Ave Marie» e quelle amabili dinastie, altrove dette clan, che nel film 9 settimane e mezzo frequentano i cosiddetti «ristoranti per famiglie», dopo tutto ciò lo IOR che investe in pistole, quantunque non giocattolo, è una notizia che strappa un sorriso.

D’altra parte cosa ci si può aspettare dal presidente dello IOR, quell’Ettore Gotti Tedeschi fautore della «superiorità di un capitalismo» che manco a dirlo dev’essere «ispirato alla morale cristiana», personaggio che arriva ad affermare che il capitalismo sia nato «ad esaltazione della dignità dell’uomo» e che la crisi economica che sta fiaccando mezza Europa origini «dal non aver seguito le indicazioni della Humanae Vitae, cioè dalla negazione della vita e dal blocco delle nascite»?

Un revolver non è dunque che la ciliegina sulla torta: d’altra parte un moderno braccio secolare non può affidarsi, come direbbe Marcinkus, alle Ave Marie.
Lo sapeva bene il belligerante papa Pacelli quando decise, in un sospettissimo anno ventunesimo dell’era fascista o, per chi preferisce il più consono calendario gregoriano nel lontano 1942, di istituire proprio lo IOR. Cosa fatta capo ha, purtroppo, ma per il futuro suggeriamo altri passatempi. Ad esempio gli immortali Monòpoli o Risiko: quei divertimenti seri, innocui e conviviali che a ragion veduta possono essere reputati assolutamente consoni ai piccoli e grandi capitalisti del ventunesimo anno. Pardon, secolo.
 

mercoledì 8 febbraio 2012

Santo esercito

In questi giorni di diffusa emergenza gelo e neve, fenomeni atmosferici che sembrano non risparmiare nessun angolo dell’imbiancato Belpaese, capita di vedersi recapitare a casa il conto.
Non la bolletta del metano o la fattura del fai da te sotto casa ormai a corto di sacchi di pellet; non il conto del dentista il cui studio sembra essere rimasto l’ultimo luogo riscaldato dell’intera Penisola, nel quale ormai è un piacere rifugiarsi, e nemmeno il conto delle migliaia di ambulanze che in tutto il paese stanno soccorrendo anziani e invalidi in difficoltà: no.
Il conto che è arrivato a sorpresa a molti sindaci dell’Italia centrale, dove così tanta neve è un fenomeno che coglie tutti impreparati, è precisamente quello dell’esercito di spalatori che hanno prestato, per usare un gentile eufemismo, la loro manodopera nella rimozione delle decine di centimetri del bianco elemento inesorabilmente caduti negli ultimi giorni; e l’esercito di spalatori, è proprio il caso di dirlo, esattamente di esercito si tratta, perché il Ministro della Difesa ha ben pensato di impiegare proprio i corpi militari per dare una mano a spalare la neve, salvo poi recapitare a casa dei malcapitati sindaci, cioè nei vari municipi italiani che hanno avuto l’ardire di fruire volentieri del servizio così magnanimamente messo a disposizione, l’onorario per il disturbo.
Se «ad Urbino il sindaco si è sentito chiedere 700 euro al giorno per dieci spalatori (cioè soldati con una pala in mano) più il vitto e l’alloggio», è andata meglio al primo cittadino di Ancona cui l’esercito ha chiesto solo «200 euro al giorno per un bobcat, 800-900 euro per una ruspa, una somma al di sotto dei 100 euro a testa per l’impiego dei soldati, cui però vanno garantiti vitto e alloggio». Non proprio un trattamento da settimana bianca in mezza pensione, ma poco ci manca.
Anche se, stando alle ultime notizie, i sindaci alla fine non pagheranno l’intervento dei militari, il conto dell’esercito rimane comunque l’ultimo dei paradossi italiani.
Ormai da decenni in preda alla frenesia privatizzatoria, dopo aver dato in gestione la scuola, le infrastrutture, persino la gran parte della sanità a entità aziendali dalla mentalità, va da sé, aziendalistica, lo Stato autorizza l’esercito, fruitore peraltro di non pochi fondi pubblici ad esso destinati, a chiedere ai cittadini il conto per le sue prestazioni. Grazie e arrivederci, il piacere è tutto vostro.
Ai poveri italiani, tra cui il sindaco di Urbino che, assieme al presidente della sua Provincia, ha sollevato la questione, non resterà che votarsi a qualche santo. Non c’è che l’imbarazzo della scelta: tra San Maurizio protettore degli Alpini, San Michele protettore dei Paracadutisti, Santa Barbara protettrice degli Artiglieri e San Giorgio protettore dei Cavalleggeri, persino i buoni vecchi santi sembrano essere stati privatizzati. Con la speranza che almeno a loro, dall’alto dell’invidiabile soprannaturale universo parallelo dove si trovano e dove il denaro non ha più alcun senso, non venga in mente prima o poi di presentare il conto per il mistico intervento.
 

mercoledì 1 febbraio 2012

Tutti al mare

Lo slovacco Sloboda a Solidarita, ossia il locale partito liberale di centrodestra il cui nome suona più o meno come Libertà e Solidarietà, ha ideato una singolare campagna per l’abolizione delle immunità parlamentari: diciassette deputati hanno posato più o meno senza veli e la fotografia, pubblicata sul profilo Facebook del partito, ha ovviamente fatto il giro del web.
In realtà è difficile stabilire se i diciassette moschettieri compaiano davvero come mamma li ha fatti: il lungo lenzuolo che li copre, recante la scritta «togliamo l’immunità ai deputati», non lascia apparire che una fila di poco sensuali polpacci da un lato e una schiera di autorevoli mezzobusti dall’altro, ossia quanto di più burocratico e meno frizzante si possa immaginare in termini di esposizione della nuda carne. Come a dire che persino Formigoni nell’istante in cui, coperto solo di una minima mutanda da bagno e con il naso efficacemente turato in vista del tuffo cosiddetto «a bomba» (in questo caso non sexy) dall’alto della barca ciellina di ordinanza, quella che secondo le solite malelingue sarebbe stata acquistata in nero dal nucleo d’acciaio del movimento di Giussani, insomma persino il casto governatore lombardo, al confronto con i politici slovacchi, sembra uscito fresco fresco dal set di una pellicola di Tinto Brass.

In politica economica il partito slovacco, capeggiato dal paladino esteuropeo del liberalismo economico Richard Sulik che per ribadire la propria autorità di leader si è riservato, nella foto in questione, uno dei posti migliori giusto dietro le spalle della più avvenente tra le uniche tre donne che hanno contribuito al progetto, non è più seducente che nell’immagine e somiglia pericolosamente ad un altro lombardo compagno di merende del casto governatore, quel ministro Tremonti che cercò di far digerire alle imprese nostrane la versione epurata della flat tax, altrimenti proibita dall’articolo 53 della Costituzione, violando al tempo stesso i parametri dettati dagli accordi di Maastricht e innalzando il già opulento debito pubblico italiano fino alle vette che sappiamo e che, con buona pace del nostro ex ministro dell’economia, non somigliano affatto alle bianche cime della sua Valtellina.

Molto meglio il mare. Peccato solo per il sospetto che rimane dopo aver ammirato la compatta schiera dei deputati del suddetto partito slovacco, e cioè che in fondo i diciassette parlamentari non siano nudi come vorrebbero dare ad intendere: come per i già citati colleghi italiani, con il quale hanno in comune il concetto di libertà o liberazione o liberalizzazione che dir si voglia, anche dei deputati di Sloboda a Solidarita si ha l’impressione che vogliano apparire all’elettorato come una simpatica compagine di rispettabili cristiani con l’attenzione al sociale e che, in fondo, sotto il pasionario e barricadero lenzuolo di protesta nascondano gli slip del costume. Tanto più che la scritta che inneggia alla fine dell’immunità parlamentare, in realtà, si riferisce a reati come «l’eccesso di velocità», mostrando così anch’essa il suo prevedibile lato segreto; e mentre l’economia europea agonizza sotto i colpi di piccozza dei liberalisti incalliti, meglio gettare via il lenzuolo, procurarsi un costume da bagno e rivelarsi per quello che si è: tutti pronti per un tuffo in compagnia.
  

sabato 28 gennaio 2012

Il terremoto e la scatola dei sogni

Mentre le scosse sismiche al nord riaccendono arcaiche paure di natura quasi millenaristica, gli italiani, evidentemente non del tutto tranquilli almeno finché non sarà trascorsa incolume la data del 12 dicembre 2012, presunta fine del mondo stando alle previsioni precolombiane ormai battute e ribattute dai media, ripescano la singolare figura di Raffaele Bendandi: l’uomo dei terremoti.
Faentino di nascita, astronomo autodidatta, Bendandi divenne famoso tra il ventennio fascista e l’era della prima televisione per le sue previsioni, alcune delle quali sorprendentemente azzeccate, dei terremoti italiani. Bendandi non era un professionista né riuscì ad esporre le proprie teorie sismologiche in una forma ritenuta accettabile da parte della comunità scientifica e tuttavia, complice la neonata dimensione parallela televisiva, egli divenne un autentico personaggio pubblico, da intervistare all’indomani dei sismi che sconvolgevano l’Italia e sui cui inascoltati avvertimenti ricamare storielle ad uso e consumo dei sudditi imbambolati di fronte alle scatole dei sogni: se proprio bisogna perire sotto un terremoto, almeno si perisca davanti alla TV.

Oggi che gli universi paralleli sono sempre più di moda non ha molta importanza che il Nostradamus dell’Appennino, che fra l’altro morì non avendo saputo prevedere la caduta di un pesante rullo della strumentazione pazientemente raccolta nella casa-osservatorio di Faenza giusto addosso alla sua persona, abbia partorito nella sua non breve esistenza un centinaio di previsioni di terremoti solo fino al 1977. Già corre la ghiotta notizia, affiliata al miglior filone catastrofico di cui la scatola dei sogni è ancora il principale mezzo di diffusione, che entro i primi giorni dell’aprile 2012 una serie di terremoti metterà in ginocchio il pianeta e in particolare il Belpaese: novella che si auspica verrà smentita, come già accaduto nel maggio 2011, dall’associazione nata in memoria e per la diffusione delle teorie del suddetto personaggio e che risponde al simpatico, un po’ prevedibile e per niente catastrofico nome di Bendandiana, con l’augurio altresì che il mondo vada avanti incolume, nonostante gli inevitabili sismi, almeno fino al suo presunto epilogo il prossimo dicembre; ovvero, per i più ottimisti, fino a  quel 3797 che sarebbe appunto l’anno dell’ultima profezia di Nostradamus. Niente panico dunque: c’è tutto il tempo di finire di guardare il proprio programma preferito alla TV.
 

venerdì 27 gennaio 2012

I violini di Auschwitz

«Arbeit macht frei»: il lavoro rende liberi ovvero, traducendo per associazione di idee con un proverbio nostrano, il lavoro nobilita l’uomo, è la nota frase forgiata all’ingresso del campo di sterminio di Auschwitz che testimonia di come ordinarie attività umane, in questo caso il lavoro, possano essere trasfigurate fino ad assumere connotati antiumani. E’ successo nel cuore dell’Europa non molti decenni fa e la memoria di tanto orrore, l’abominio (Shoah) per dirla in termini ebraici, rischia di cancellarsi come le impronte dei prigionieri sotto la neve incessante del freddo inverno dei lager.
Così il proprio mestiere diventa strumento di offesa e di morte: i prigionieri costretti a lavorare negli stabilimenti tedeschi che producevano gli stessi gas tossici impiegati per ucciderli ne sono il tragico paradossale esempio. E dove l’ordinario diventa brutalità non può mancare la musica: costretti a suonare durante le adunate, le marce verso i forni crematori, i rientri dal lavoro o più semplicemente per intrattenere gli ufficiali nazisti, i prigionieri, in specie ebrei e rom che tuttora possiedono una grande e viva tradizione violinistica, coprivano il fragore del campo con le note dei loro strumenti e, mentre la musica altrove è espressione di vita, ad Auschwitz è strumento di morte.

Ai giorni nostri un liutaio di nome Amnon Weinstein ha rinvenuto e restaurato i violini appartenuti ai prigionieri ebrei dei campi di sterminio tedeschi.
Si tratta di qualche decina di strumenti di pregevole fattura e spesso decorati con stelle di David e altri motivi tradizionali, inventariati in una collezione dal significativo nome di «violini della speranza»: gli strumenti, alcuni dei quali hanno rivissuto tra le mani di interpreti del calibro di Shlomo Mintz, Weinstein li ha scovati con decennale pazienza in giro per l’Europa e fra la diaspora ebraica statunitense, e li ha raccolti con l’intento di farne rivivere gli interpreti, uomini e donne e ragazzi brutalmente uccisi, assieme ad altri milioni di inermi cittadini, nei campi di sterminio nazisti durante la seconda guerra mondiale.

Chissà cosa pensavano i prigionieri costretti a suonare mentre chi era già destinato alla morte faceva il suo ingresso nelle camere a gas; chissà quante volte le mani si rifiutavano di tirare l’archetto, i menti di sostenere gli strumenti, le dita di tendere le corde mentre intorno i corpi di altri prigionieri, magari anche il proprio fratello o sorella o la propria moglie o marito, venivano ammassati nei forni crematori. Chissà.
Far risuonare oggi i violini di Auschwitz significa anche fare i conti con l’abisso di chi, sopravvissuto, ha usato la musica come ennesimo strumento di morte in un luogo dove la sopraffazione è stata la regola, la misura di tutte le cose e dove le madri cantavano la ninnananna ai bambini sulla porta della camera a gas.
Alla domanda sul perché gli ebrei (e lo stesso dicasi per i rom) possiedano la grande tradizione violinistica che possiedono, un vecchio adagio yiddish risponde: provate voi a scappare con un pianoforte in spalla. Una eterna fuga dei diversi che non s’abbia a dimenticare.
 

mercoledì 25 gennaio 2012

Di' la tua

I sondaggi del Corriere della Sera, riuniti nella rubrica dal significativo titolo di «Di’ la tua» e che nelle intenzioni del famoso quotidiano «hanno l’unico scopo di permettere ai lettori di esprimere la propria opinione sui temi di attualità», rivelano simpatiche sorprese sulle preferenze del popolo italiano.
Dai ristoranti del Friuli al dibattito ecologista sulle motoslitte, da Monti agli storici attaccanti del Milan, dai controlli antievasione all’opportunità del prato finto negli stadi, scorrere le risposte offre uno spaccato della mentalità del Belpaese.
Veniamo così a scoprire che, alla domanda «Stati Uniti: per mille dollari una macchina decifra il nostro Dna e calcola la predisposizione a certe malattie. La usereste?» gli italiani hanno risposto sì nel 74,8% dei casi: in barba alla crisi, per la salute non si bada a spese. Ma quando si tratta di dire la propria sull’argomento «Gli immigrati dovranno pagare fino a duecento euro per il permesso di soggiorno. È giusto?» il 64,8% risponde sì: a ciascuno la propria parte di sacrifici economici.
Se di fronte al quesito «Appello del club alpino lombardo contro le motoslitte: “rovinano le Alpi”. Siete d’accordo?» gli italiani, mostrando una encomiabile attenzione ai problemi ambientali, votano in massa (87,7%) per il sì, alla domanda «A Milano debutta l’area C, a Roma due giorni di targhe alterne. Ritenete utile questo tipo di misure?» la massa dei perfetti ecologisti si disperde e risponde sì soltanto una risicata maggioranza, lasciando immaginare che l’odiata motoslitta non faccia altro che rovinare le meritate ferie dei vacanzieri in suv.
Il sondaggio più alla moda, tuttavia, fa leva sull’inconscio: «Berlusconi: mai adozioni per i single né equiparazione tra unioni etero e omosessuali. Sei d’accordo?». La maggioranza degli italiani, va da sé, accanto agli scrupoli per l’integrità del territorio e alla tutela dei propri figli contro il pericolo immigrazione, è d’accordo con l’ex presidente del Consiglio. Il quale, tra parentesi, non si capisce a che titolo si permetta di intervenire su una questione che non lo dovrebbe più riguardare. Ma si sa: in Italia ciò che viene messo alla porta rientra puntualmente e sistematicamente dalla finestra.
Come il machismo: alla domanda «È giusto che delle giornaliste che vogliono condurre i telegiornali venga valutata anche la bella presenza?», infatti, rispondono no solo 44 italiani su 100: nell’era delle veline e degli ex premier orgogliosamente eterosessuali il vero talento resta sempre uno solo. E il vero volto dell’Italia, parimenti, non si smentisce mai.
 

lunedì 23 gennaio 2012

Come ti sbianco la diva

La cantante statunitense Beyoncé, icona della musica leggera coloured, sta diventando bianca.
Se non nella vita, quantomeno nella campagna pubblicitaria per una noto marchio di cosmetici la diva appare con lenti a contatto chiare e, grazie a photoshop, con un incarnato decisamente palliduccio che farebbe invidia al defunto Michael Jackson, celebre per le sue vere o presunte operazioni di chirurgia estetica volte ad assomigliare a quella casalinga olandese che costituiva il perfetto cliché di razza bianca in un’epoca in cui i programmi di fotoritocco erano ancora preistoria.

Su Jackson si tramanda fosse affetto da una malattia dermatologica: ma la ricostruzione del famoso nasino tradisce comunque ben altre intenzioni.
Di Beyoncé, invece, che dire? Per la diva afroamericana vestire i panni virtuali di una bellezza centroeuropea può forse essere un gioco pericoloso; un passatempo di grande attualità, quello di schiarirsi la pelle, che è testimoniato dai milioni di operazioni chirurgiche cui si sottopongono ogni anno veri e propri eserciti di donne afroamericane e che giustamente non piace né al popolo coloured, né agli individui ancora dotati di un grammo di buon senso. Già: perché è bene sapere che negli Stati Uniti ogni anno chiedono di diventare più simili al famoso modello caucasico oltre tre milioni di persone appartenenti ad altra etnia.

La verità è che, a leggere le pagine del gossip, se ne impara ogni giorno una nuova. La vicenda Beyoncé ad esempio insegna a milioni di ragazzine di pelle nera cos’è la tanto ambita razza caucasica, vera Araba Fenice di cui tutti parlano ma nessuno francamente ha la minima idea di cosa sia: e in effetti, come per la Fenice, anche per la razza caucasica sorgono ragionevoli sospetti riguardo la reale esistenza.
Dunque: alla voce caucasico Wikipedia afferma che «la scelta del termine è dovuta al ritenere che le persone d’incarnato roseo siano i discendenti dai superstiti sull’arca di Noè, che sarebbe approdata nel Caucaso». Sulla scientificità di tale credenza, prosegue l’enciclopedia on-line, la dice lunga la circostanza che «per i razzisti, che credono ancora nella validità scientifica del concetto di “razza”, il termine “razza caucasica” indica una razza specifica di Homo Sapiens, per la precisione i bianchi».

Inutile a questo punto precisare che tale terminologia, cara alle ragioni del razzismo spirituale partorito dalla mente di simpatici personaggi della risma di Julius Evola, «non segue il Codice Internazionale di Nomenclatura Zoologica».
A che serve, infatti, un codice internazionale di nomenclatura zoologica? Bastano la Bibbia, sulla quale il povero Galileo aveva già detto la sua giusto qualche secolo fa (le Scritture insegnino «come si vadia al cielo, e non come vadia il cielo») e l’amor proprio di certe minoranze di individui che, mistero, sono riusciti ad inculcare alla maggioranza delle persone la certezza che sia preferibile tramutarsi, in un modo o nell’altro e costi quello che costi, nel modello (minoritario) da essi stessi imposto: il tutto con la benedizione del prete, del chirurgo plastico oppure, come nel caso in questione, dei grafici pubblicitari web.

Per fortuna c’è Michelle Obama; ben lungi dal desiderare di passare la propria epidermide in candeggina, in questi primi tempi del 2012 la first lady inaugura il proprio profilo sul social network Twitter e, in poche ore, raggiunge le migliaia di fans: segno che i tempi apocalittici del bianco che più bianco non si può stanno auspicabilmente volgendo al termine e che, con buona pace di Beyoncé e del defunto Michael Jackson, ognuno si terrà la pelle entro la quale è venuto al mondo. Perché poi alla fine, all’ombra, non è forse vero che tutte le vacche, pardon, tutte le Arabe Fenici sono nere?
 

martedì 17 gennaio 2012

Le autorità, il Giglio e la Concordia



Dov’erano le autorità prima del disastro?

Il comandante della Concordia è un criminale. Imbecille, ma criminale. Non c’è bisogno di commettere un reato scientemente per esserlo. Anche un imbecille incosciente che commette un reato è un criminale. E’ assodato, o no?

Il comandante Schettino, dunque, l’ha fatta grossa. Chi sa dov’era, mentre la Concordia andava dritta sulla secca, per non accorgersi di quello che stava accadendo. E’ un criminale, imbecille, ma criminale e la legge i criminali li punisce.

Dice, quella manovra, azzardata, fuorilegge, era all’ordine del giorno. La facevano tutte le navi di passaggio e per la Concordia non era la prima volta.

Ora mi chiedo, dov’erano la Capitaneria di Porto, il sindaco dell’Isola del Giglio, il Procuratore della Repubblica di Grosseto, fino ad oggi, ogni qual volta la Concordia e le altre navi manovravano sotto costa, in “area protetta” e sottoposta a stretti vincoli di legge?

E’ mai possibile che, fino ad ora nessuno se ne sia mai accorto, che nessuno abbia mai ravvisato un reato e che, il reato, per essere tale e far intervenire le autorità deve necessariamente raggiungere i livelli della tragedia umana e del disastro ambientale?

gv

Conosci Bersani?

C’era una volta lo scivolone del Pd sulla mutata (correva la non remota estate del 2011) situazione politica italiana, quel «cambia il vento» che chiosava l’immagine di un paio di gambe di donna a stento coperte da una succinta minigonna scarlatta quasi strappata via dalla nuova brezza sinistrorsa: campagna pubblicitaria che fece giustamente storcere il naso a quante e quanti criticano l’uso strumentale del corpo femminile, consueto appannaggio del centrodestra becero e pecoreccio delle presidenziali scuderie, anche da parte di un partito politico che si dice democratico e progressista.
Caduto di cavallo il Cavaliere, tuttavia, l’armadio del Pd non riesce ancora a liberarsi dei propri polverosi scheletri mediatici e punta oggi su un altro tema scottante: dopo l’immagine del femminile è la volta, manco a dirlo, della famiglia.
«Conosci i miei?» è il patetico titolo della nuova iniziativa del maggior partito del centrosinistra nostrano: una serie di monocromi cartelloni pubblicitari volutamente oscuri, recanti la scritta «conosci Eva?» «conosci Faruk?» «conosci Tal dei Tali?» e via elencando, hanno nei giorni scorsi tappezzato la capitale, alimentando peraltro una polemica sull’eventuale abusivismo di molti dei manifesti in questione che invitano i malcapitati lettori a recarsi su Facebook, il social network più alla moda, e unirsi al gruppo omonimo per scoprire che cosa Luciano, Eva, Serena, Faruk e compagnia avrebbero in comune.
La risposta al quesito è essa stessa oscura e lasciata all’immaginazione delle poche centinaia, almeno finora, di fans del gruppo; in pratica tutto in famiglia: tra consorti, figli, generi, nuore, cognati, zii, cugini di Bersani, Letta, Migliavacca, Bindi, Di Traglia e chi più ne ha più ne metta, radunare sei o settecento persone è veramente un gioco da ragazzi.
L’insuccesso di queste campagne pubblicitarie della sinistra made in Italy, evidente già per la minigonna, è sfacciatamente palese nel caso del gruppo di Facebook, dove canta la carta e i numeri striminziti non si possono gonfiare come i palloncini rossi alle antiche feste dell’Unità.
Altrettanto chiare sono le motivazioni: appropriarsi di un lessico nonché, quel che è più importante, di un modus cogitandi che sono tipici del pensiero della destra reazionaria e retriva non può procacciare a Bersani e ai suoi un vivo consenso. Il coinvolgimento buonista dell’elettore, o del tesserato, nella grande famiglia del Pd basandosi sui valori della peggiore tradizione italiota dei vari «gnocca per tutti» oppure «di mamma ce n’è una sola» o ancora il classico corollario all’anello di fidanzamento del «ti presento i miei», è una operazione che fa letteralmente cadere le braccia. Gran problema: circostanza che impedisce, fra l’altro, di poter stringere appropriatamente la mano ai membri della rispettabile famiglia di Bersani.

   

lunedì 16 gennaio 2012

Nel paese della "concordia"






Accade in Italia, nel paese della concordia.

Accade che un presidente del consiglio, quarta carica dello Stato, si porti nella residenza istituzionale un intero harem, ma senza eunuchi. Lui e i suoi sodali, elettori compresi sono concordi. E mentre l’Italia affonda gli eunuchi sono gli italiani evirati dei loro diritti.

Accade che il comandante di una nave da crociera se ne vada a spasso con la sua nave Concordia a spasso tra le secche dell’isola del Giglio invece di girare al largo. Lui abbandona la nave mentre passeggeri, equipaggio e magistratura non sono affatto concordi, mentre la nave affonda.

Accade che il governo del presidente del consiglio, quello del harem, non c’è più e nemmeno l’opposizione che non era concorde.

Accade che mentre l’Italia continua ad affondare sulle secche dell’Europa c’è un altro governo: quello della concordia. Quelli del governo del harem e quelli dell’opposizione concordano.


giuseppe vinci



http://www.trameindivenire.it/2012/01/16/nel-paese-della-concordia/

sabato 14 gennaio 2012

L'unico frutto della discordia

A sentir parlare di banane, quei buoni frutti ricchi di fosforo che piacciono un po’ a tutti, la prima psichedelica associazione di idee è pensare alla fantomatica eppure famosissima Repubblica delle banane: luogo ideale in cui sarebbe costantemente in vigore, secondo Wikipedia, un regime politico «instabile, dove le consultazioni elettorali sono pilotate, la corruzione è ampiamente diffusa così come una forte influenza straniera. [...] Per estensione il termine è usato per definire governi dove un leader forte concede vantaggi ad amici e sostenitori senza grande considerazione delle leggi e mettendo alla porta coloro che non l’hanno votato o appoggiato in senso economico e/o politico».
La popolarità che il dolce e sostanzioso frutto da sbucciare ha raggiunto in questi giorni non riguarda, però, né il famoso film di Woody Allen «Il dittatore dello stato libero di Bananas» e nemmeno, a scanso di equivoci, la situazione politica nostrana: la tropicaleggiante simpatica banana richiama semmai una ennesima querelle sul copyright, che concerne stavolta i cosiddetti diritti di sfruttamento di un logo celeberrimo, appunto la banana della copertina del disco che i Velvet Underground hanno pubblicato nel lontano e ormai mitico 1966, disegnata per il gruppo musicale nientemeno che da Andy Warhol in persona. La disputa è la seguente: poiché il logo pop, i cui diritti sono gestiti dalla Andy Warhol Foundation, richiama anche in maniera inequivocabile l’immagine dei Velvet Underground, questi ultimi chiedono (non, va da sé, a ritmo di rock bensì a suon di avvocati) una parte del malloppo.
La malinconica banana, che nella copertina delle primissime copie del disco uscì addirittura in versione sbucciabile con tanto di interno ambiguamente rosa, anch’esso partorito dal genio congiunto del leader dei Velvet, Lou Reed, e del suo amico Warhol, vede oggi tramontare il proprio mito: dietro le grandi amicizie, ormai, spuntano inesorabili le questioni di soldi. Ma tant’è.
Altro che Velvet Underground: oggidì, con i tempi che corrono, non si può più cantare nemmeno «l’unico frutto dell’amor / è la banana / è la banana». Il nostro amato frutto giallo non espone più il proprio ambiguo cuore rosa custodito dalle ammiccanti parole peel slowly and see, sbuccia lentamente e vedrai, bensì un prosaico verde-bigliettoni assai più consono alla società moderna. Morto il ’68, anche il ’66 comincia a non sentirsi troppo bene. Carenza di fosforo?
 

giovedì 12 gennaio 2012

(A)normalità

Stanno facendo il giro del web, accompagnate dal comprensibile scalpore che le dichiarazioni del genere non mancano mai di suscitare, le parole del teleprofessore di medicina più popolare dell’etere, lo psichiatra Francesco Bruno: lo strizzacervelli televisivo ha infatti solennemente annunciato per l’ennesima volta che «l’omosessualità va considerata anormalità»; fin qui, visto che l’Italia è un paese in cui ciascuno resta libero di dire la propria, passi. Ma se si considera che nel lontano 1990 l’Organizzazione Mondiale per la Sanità, a dispetto di Bruno, ha depatologizzato l’orientamento omosessuale, la circostanza che proprio un medico si prenda la briga di smentire autorevoli colleghi di livello internazionale sulla base della propria percezione individuale lascia francamente senza parole: e meno male, perché di parole abbonda già a sufficienza l’accademico labbro di Francesco Bruno.
Il culmine del trash verbale il professore lo raggiunge infatti in un paio di affermazioni rilasciate alla vecchia volpe che è appunto Volpe, arcinoto direttore del blog Pontifex, testata ultrareazionaria che volentieri, manco a dirlo, ospita gli sproloqui del nostro: «Io ho il diabete» afferma infatti il professor Bruno; «non mi offendo se qualcuno mi dice che sono malato, è la realtà. Bene, per quale motivo gli omosessuali si offendono se qualcuno, correttamente, parla di patologia?». Ordunque: il diabete secondo Bruno è una condizione di cosiddetta anormalità, ammesso e non concesso di essere certi su cosa sia, invece, la normalità. Ma per una volta ammettiamolo; e concediamolo pure.
Il professore quindi prosegue. «Una eccessiva tolleranza verso stati di anormalità, e l’omosessualità tale va considerata, ci porta alla conclusione che la gente si confonda e non capisca più cosa è il bene e che cosa è il male». Perché dunque, dal punto di vista del telemedico, considerare un diabetico, cui lo stesso professor Bruno ha posto l’etichetta di difforme dalla normalità, come oggetto di umana tolleranza? Perché rendersi in tal modo complici della generale confusione nella comprensione di ciò che è bene e ciò che è male? Professore, attento alle spalle: le sue parole sono un boomerang.
Ma per fortuna, dottor Bruno, la salvano i meriti: un suo degno collega e predecessore, il medico Sorano di Efeso, molti secoli fa ebbe a scrivere: «Come lo strumento che, applicato ad un vaso, quando il recipiente è pieno fino all’orlo fa colare il liquido, così il diabete causa l’impulso intrattenibile ad urinare». Nel caso in questione, ciò che segna la vera svolta nel campo scientifico, lo stimolo è piuttosto quello alla farneticazione: grazie ai meriti, normali o anormali, del professor Francesco Bruno, un nuovo capitolo della storia della medicina è ora aperto.

martedì 10 gennaio 2012

16 battesimi e nessun funerale

Lui in sobrio abito scuro, cravatta in tinta, bianco colletto apocalitticamente candeggiato e mento accuratamente rasato; lei in elegante pastrano scuro come la notte, dal collo abbondante, mêches bionde sui capelli castano chiaro, trucco naturale; in braccio (alla madre, rigorosamente) il pupo biancovestito con abito dal prezioso strascico. L’ennesimo secondo o terzo matrimonio di qualche star del cinema francese non più di primo pelo? Le nozze di una oscura coppia di regnanti europei già baciati dalla dea della fecondità?
Niente di tutto ciò. Si tratta della fotografia di uno dei battesimi che sono stati celebrati da papa Ratzinger nell’invidiabile scenario della Cappella Sistina in occasione del Battesimo del Signore, festa religiosa che cade ogni anno la prima domenica dopo il 7 gennaio.
L’occasione di quest’anno ha visto ben sedici neonati, non certo figli delle barbone di Termini bensì, più appropriatamente, progenie di altrettante rispettabili coppie di dipendenti vaticani, che hanno atteso tra un pianto e un vagito di essere inumiditi dalle mani papali, facendo così il loro ingresso nel jet-set della Chiesa Cattolica Apostolica Romana.

Ignare bamboline in candido taffetà, i piccoli battezzati c’entrano assai poco, a onor del vero, con la festa che il Vaticano ha inteso celebrare in modo così smaccatamente hollywoodiano, e cioè il ricordo del battesimo di Gesù: anzitutto per l’ambientazione. Non le carni michelangiolesche né i corpi austeri dei genitori vaticani, ma la promiscuità dei bagnanti del Giordano ha fatto da cornice, duemila anni or sono, all’evento che si intende onorare. Che pensare, poi, del fatto che il battesimo di Gesù sia stato officiato, per così dire, da un laico, ossia da quel profeta chiamato giustamente Giovanni il battezzatore che tutto era fuorché un sacerdote ammantato di lucidi broccati? E infine, soprattutto, quando si è fatto battezzare da Giovanni nelle acque del Giordano Gesù non era un bambino.
«Il battesimo», ha detto il papa evidentemente dimentico che, oltre ai lustrini cattolici apostolici romani, esiste al mondo una varietà di religioni che per chi le professa sono state donate all’uomo da Dio tanto come il cattolicesimo, «è la prima scelta educativa». Difficile immaginare che, estrema unzione a parte, possa esisterne un’ultima; ma come slogan cinematografico va decisamente bene così.
 

venerdì 6 gennaio 2012

Befane lesbiche

La Befana, è ben noto, è la festa di tutte le donne. La vecchietta un po’ scorbutica dal cuore d’oro che distribuendo piccoli doni, ben più proletari rispetto a quelli magniloquenti del collega capitalista Babbo Natale, si porta via tutte le feste, somiglia davvero al concetto del femminile: mutevole e popolare, dolce e sanguigna, ironica e malvestita, la befana è l’archetipo di ciò che non sembra ma è, di ciò che le apparenze nascondono, di ciò che non si può dire. Perfetta per tutte le donne, che le assomiglino o no, la Befana parla di donne: di ciò che le donne non sono, di ciò che vorrebbero essere, di ciò che non vorrebbero essere e persino di ciò che non sono.
Ma c’è di più: poiché delle donne anziane, come se lo sfiorire della bellezza giovanile negasse automaticamente l’identità femminile, non si parla mai, la Befana è anche una importante occasione di riflessione su come la società moderna vede la donna e sui ghetti di lustrini e belle apparenze nei quali, l’attualità delle varie suobrette rubacuori insegna, la relega. Inoltre il legame tra Befana ed il concetto del manifestarsi, nel caso occidentale l’epifania cristiana del piccolo Gesù ai Magi, dona alla famosa vecchietta un’aura di introspezione psicologica che in altri personaggi popolari o mitici non è altrettanto evidente.
Perfetto per l’occasione befanesca è quindi il libro della psicoterapeuta statunitense Karol Jensen, Lesbian Epiphanies, una pubblicazione che parla delle donne che acquisiscono consapevolezza della propria omosessualità tardi nella vita, magari dopo un matrimonio e una famiglia tradizionale, e dell’impatto che i cliché sociali hanno su questo genere di esistenze. Attraverso l’esame di una ventina di casi del genere, il libro s’interroga sui motivi che spingono le donne a nascondere la propria sessualità per così tanto tempo.
L’ingrediente psicologico, la presenza di befane tardone che non sono consapevoli del loro essere tali, ossia di avere un potenziale lato di ribelle autonomia, e le molte storie di rinnegamento della propria identità lesbica a seguito della visione negativa che la società ha della sessualità femminile (in tutte le sue forme, a ben vedere) rendono il libro un prezioso regalo per le befane anglofone e una valida occasione di riflessione per tutti. Se la Befana di quest’anno, in piena crisi economica, si dovesse dimenticare di riempire le calze ansiose di aggiungere questo libro alla propria lista di letture per il 2012, una cospicua selezione è facilmente reperibile anche su internet: nel suo essere donna, anziana, lesbica e persino un po’ comunista, la Befana è davvero una sovversiva.

Karol L. Jensen
Lesbian Epiphanies: Women Coming Out in Later Life

Harrington Park Press, giugno1999
228 pagine, 26,97 euro
(in inglese)

   
 

lunedì 2 gennaio 2012

Pace, aborto e paradossi

Non c’è pace se c’è aborto: il legame tra queste due parole, ormai divenute slogan da gridare a denti serrati ogni qualvolta l’arenarsi di una dialettica, ovvero la mancanza di argomenti meno ammuffiti, ne forniscano l’esigenza, sembra una costante della nostra attualità.
Come certa musica cosiddetta contemporanea ma nella realtà già da mezzo secolo in circolazione, così anche l’associazione tra cultura della pace e lotta all’interruzione di gravidanza più o meno volontaria, spacciata per concetto fondamentale, ci perseguita cacofonicamente al pari.
Da un po’ di tempo a questa parte quasi ogni primo gennaio, giornata mondiale della pace, il suddetto fatale collegamento di concetti si mostra misticamente alla somma autorità cattolica di turno con la stessa virulenza con cui Carmelo Bene sosteneva di essere «apparso alla Madonna». L’eredità di Giovanni Paolo II con il suo «non può esserci pace autentica senza rispetto per la vita» dove vita, s’intenda, è curiosamente da leggersi come embrione, è stata degnamente raccolta da papa Ratzinger: il primo gennaio 2007 egli infatti dichiarò che «accanto alle vittime dei conflitti armati, del terrorismo e di svariate forme di violenza, ci sono le morti silenziose provocate dalla fame, dall’aborto, dalla sperimentazione sugli embrioni e dall’eutanasia. Come non vedere in tutto questo un attentato alla pace?».
La domanda retorica finale, concepita come calcio nello stomaco dei buoni cattolici praticanti e degna di uno dei più bei paradossi usciti dalla penna di Umberto Eco, il suo «c’è davvero bisogno di domande retoriche?», già da sola chiarisce gli intenti di chi l’ha formulata: imporre la propria Weltanschauung come è solito fare il papa tedesco è segnale di un atteggiamento non propriamente pacifico. Ma si sa, sovente chi di retorica ferisce di paradosso perisce.
Alla tentazione di associare l’aborto alla guerra non è stata esente nemmeno il premio nobel per la pace Madre Teresa di Calcutta, secondo la cui belligerante opinione «oggigiorno il più grande distruttore di pace è l’aborto, perché è una guerra diretta, una diretta uccisione, un diretto omicidio per mano della madre stessa». Come non sentirsi schiacciati da tale e tanta sicumera? Già dai toni pare di assistere ad una novella Apocalisse scoppiata come un fungo atomico tra le corsie d’ospedale, nel dramma di chi rinuncia alla propria gravidanza e si vede oltretutto mancare la minima comprensione altrui. Sopraffino in questo caso il paradosso: chi si proclama seguace di un tale che una volta disse: «non giudicate e non sarete giudicati», si prende il diritto di farlo, ossia di giudicare, esattamente nel nome di lui. A fronte di una tale sublime contorsione, mentale e sostanziale, nessun retore saprebbe fare meglio.
Invece ci soccorre ancora Benedetto XVI che, tanto per ribadire il concetto, lo scorso primo gennaio è passato dalla consueta domanda retorica, ormai evidentemente reputata superflua, al sillogismo degno del miglior Aristotele. Il papa ha infatti affermato, nell’ambito del suo discorso in occasione della giornata della pace, che la maternità è «sempre stata associata alla benedizione di Dio». Ora, sappiano i fedeli cattolici nonché, vista la risonanza mediatica dei discorsi del primate della chiesa Roma, anche i fedeli non cattolici per non parlare dei non fedeli, insomma sappia l’intero orbe terracqueo che la pace «è la somma e la sintesi di tutte le benedizioni». Dunque cosa ne consegue? Se la fecondità è benedetta e le benedizioni sono pace, persino un ragazzino saprebbe tirare, assieme all’acqua al mulino papale, anche le dovute conclusioni del caso. Ma tant’è: ogni popolo ha le figure retoriche che si merita fin dalla tenerissima infanzia. C’è soltanto da sperare, come suggerisce l’umorista siciliano Panarello, che alla famosa madre dei cretini, sempre in stato interessante, venga finalmente offerto l’aborto gratis.