«Arbeit macht frei»: il lavoro rende liberi ovvero, traducendo per associazione di idee con un proverbio nostrano, il lavoro nobilita l’uomo, è la nota frase forgiata all’ingresso del campo di sterminio di Auschwitz che testimonia di come ordinarie attività umane, in questo caso il lavoro, possano essere trasfigurate fino ad assumere connotati antiumani. E’ successo nel cuore dell’Europa non molti decenni fa e la memoria di tanto orrore, l’abominio (Shoah) per dirla in termini ebraici, rischia di cancellarsi come le impronte dei prigionieri sotto la neve incessante del freddo inverno dei lager.
Così il proprio mestiere diventa strumento di offesa e di morte: i prigionieri costretti a lavorare negli stabilimenti tedeschi che producevano gli stessi gas tossici impiegati per ucciderli ne sono il tragico paradossale esempio. E dove l’ordinario diventa brutalità non può mancare la musica: costretti a suonare durante le adunate, le marce verso i forni crematori, i rientri dal lavoro o più semplicemente per intrattenere gli ufficiali nazisti, i prigionieri, in specie ebrei e rom che tuttora possiedono una grande e viva tradizione violinistica, coprivano il fragore del campo con le note dei loro strumenti e, mentre la musica altrove è espressione di vita, ad Auschwitz è strumento di morte.
Ai giorni nostri un liutaio di nome Amnon Weinstein ha rinvenuto e restaurato i violini appartenuti ai prigionieri ebrei dei campi di sterminio tedeschi.
Si tratta di qualche decina di strumenti di pregevole fattura e spesso decorati con stelle di David e altri motivi tradizionali, inventariati in una collezione dal significativo nome di «violini della speranza»: gli strumenti, alcuni dei quali hanno rivissuto tra le mani di interpreti del calibro di Shlomo Mintz, Weinstein li ha scovati con decennale pazienza in giro per l’Europa e fra la diaspora ebraica statunitense, e li ha raccolti con l’intento di farne rivivere gli interpreti, uomini e donne e ragazzi brutalmente uccisi, assieme ad altri milioni di inermi cittadini, nei campi di sterminio nazisti durante la seconda guerra mondiale.
Chissà cosa pensavano i prigionieri costretti a suonare mentre chi era già destinato alla morte faceva il suo ingresso nelle camere a gas; chissà quante volte le mani si rifiutavano di tirare l’archetto, i menti di sostenere gli strumenti, le dita di tendere le corde mentre intorno i corpi di altri prigionieri, magari anche il proprio fratello o sorella o la propria moglie o marito, venivano ammassati nei forni crematori. Chissà.
Far risuonare oggi i violini di Auschwitz significa anche fare i conti con l’abisso di chi, sopravvissuto, ha usato la musica come ennesimo strumento di morte in un luogo dove la sopraffazione è stata la regola, la misura di tutte le cose e dove le madri cantavano la ninnananna ai bambini sulla porta della camera a gas.
Alla domanda sul perché gli ebrei (e lo stesso dicasi per i rom) possiedano la grande tradizione violinistica che possiedono, un vecchio adagio yiddish risponde: provate voi a scappare con un pianoforte in spalla. Una eterna fuga dei diversi che non s’abbia a dimenticare.