luna bianca luna nera è la luna del calendario, quella di tutti i giorni, perché in questo blog si parla di ciò che succede e di come lo sentiamo.
l'una bianca, l'una nera: qualcosa ci piace, qualcos'altro invece no. perché anche la luna ha un suo fondo di inquietudine.

sabato 31 dicembre 2011

Botti e botti

I famosi botti, ossia i petardi, mortaretti e fuochi artificiali che vengono tradizionalmente fatti esplodere per salutare il nuovo anno fin dai tempi del settecentesco re Giorgio II, in tre città italiane quest’anno sono tabù. A Venezia, Torino e Bari sarà vietato ai privati lo scoppio del consueto petardo: unica eccezione lo spettacolo pubblico di piazza San Marco, ridotto ad un quarto d’ora di fuochi artificiali. Le altre due città vedranno invece il cielo buio e il nuovo anno arriverà quasi di sorpresa, salutato solo da concerti, balli e iniziative varie. A Milano, inoltre, si sta ancora discutendo l’opportunità di rinunciare o meno ai botti di Capodanno.

Le motivazioni? Alti livelli di smog nel capoluogo lombardo; pubblica incolumità a Venezia, cui fa eco la consapevolezza pugliese che «di botti si muore»; a Torino le preoccupazioni sembrano altre: «Nel corso degli anni - spiega l’assessore comunale all’Ambiente -abbiamo ricevuto tantissime segnalazioni di atti di goliardia nei confronti degli animali: molti con l’uso di petardi». «Tra i cani e i gatti, c’è chi fugge per il terrore, chi perde il senso dell’orientamento o morde, e chi, peggio ancora, muore di crepacuore. Ci sono stati anche casi» ricorda il dirigente del settore Tutela Animali del Comune di Torino «di animali uccisi perché mentre scappavano sono finiti sotto una macchina. Il divieto di far esplodere botti e petardi intende appunto salvaguardare gli animali».
L’intento piemontese è sensibile e lodevole. E non solo a nord ma anche a sud aleggia, in questa fine anno 2011, la brama di mostrarsi più socialmente avanzati che mai. Il sindaco di Bari afferma con convinzione che l’astinenza da botti di fine anno, con tanto di procedimento penale a carico dei trasgressori, costituisce per la sua città un «ulteriore salto di civiltà».

Tutto sottintende un apprezzabile intento di eguagliare la nordica, efficiente cultura di altri Paesi meno pecorecci del nostro. Eppure il divieto di far brillare i mortaretti, a ben vedere, lascia il medesimo retrogusto di ridicolo di quei libretti di istruzioni in cui è specificato che la lavatrice appena acquistata non deve essere spinta addosso al malcapitato parente che ci aiuta a posizionarla, che il gatto di casa non deve essere chiuso dentro il frigorifero nuovo fiammante o che il black&decker appena ricevuto per Natale non serve per trapanare le membra della moglie. Ovvio? Se qualcuno evidentemente tortura gli animali con i raudi, progettati per tutt’altro scopo, è lecito aspettarsi che qualunque oggetto possa diventare potenzialmente offensivo. Il prossimo passo sarà dunque vietare le scuri da legna o i coltelli da cucina, responsabili nella storia di centinaia di delitti perfettamente riusciti; per non parlare delle automobili che ogni anno uccidono migliaia di esseri viventi, randagi o incravattati che siano.

Chi salverà dunque il Capodanno di quegli sventurati italiani privati dei tradizionali botti? Le botti. Su facebook circolano già i gruppi del tipo: L’unico botto per noi sarà quello del tappo di spumante, nome in perfetta linea con i civilissimi scrupoli dei suddetti primi cittadini. Almeno fino a quando non sarà vietata, la sera di fine anno, anche la vendita e la distribuzione di bevande alcoliche con il lodevole intento di limitare la guida in stato di ebbrezza, gli italiani potranno brindare al nuovo anno con una bella bevuta e far finire tutto nella migliore tradizione nostrana: ossia a tarallucci e vino. Prosit!
 

giovedì 29 dicembre 2011

Cristo si è fermato a Longarone

Mentre nell’ufficio dell’anagrafe di Longarone, paese dai connotati biblici duramente colpito dal moderno diluvio universale del Vajont, il primo cittadino registra il nome di Gesù firmando il relativo atto di nascita, dal quale si desume che il noto profeta sarebbe nato nel bellunese il 25 dicembre del 2011, a Mantova il tribunale stabilisce che è vietato chiamare una bambina con il nome di Andrea, in quanto esso sarebbe «assolutamente maschile».

A Gesù, il cui nome evidentemente non suona femminile a nessuno, è andata tutto sommato assai bene: partendo dal presupposto che l’incarnazione del divino non è mummificata nella storia bensì è evento del quotidiano, il parroco di Longarone ha chiesto ed ottenuto dal sindaco di poter produrre un certificato di nascita per i suoi catecumeni, al fine di ribadire il concetto.
Vita più difficile, complice anche la farraginosa lentezza della macchina giudiziaria italiana, ha avuto invece la bambina protagonista della sentenza mantovana, venuta al mondo come Andrea ben cinque anni fa, che proprio in questi giorni si vede costretta ad una nuova identità: il tutto con la demenziale motivazione secondo la quale il nome virile di Andrea, se affibbiato ad una bambina, «non identifica la sessualità in modo corretto». Se Gesù, dai jeans fino al musical, è un nome superinflazionato e tuttavia decisamente maschile, Andrea pone però qualche problema supplementare su cui i giudici di Mantova evidentemente hanno tagliato corto.
Se Andrea al femminile è un nome impossibile, allora Giorgio Strehler non ha mai sposato l’attrice Andrea Jonasson, i loggionisti hanno semplicemente creduto di sentir interpretare Pamina dalla soprano Andrea Rost e gli sportivi austriaci si sono sognati l’oro della connazionale campionessa di super-G Andrea Fischbacher.

Il lato tragicomico della faccenda è costituito dalla circostanza che la bimba in questione, pur avendo cittadinanza italiana, vive in un contesto dove il suo nome è inteso al femminile, ossia la metropoli parigina. Se la piccola non può chiamarsi come i suoi genitori hanno deciso per lei, meglio allora non proiettare mai in sua presenza il film La Grande Abbuffata, in cui recita la splendida Andréa Ferréol. E non è questione di accenti. Con ineccepibile candore i giudici spiegano infatti che l’area geografica «non conta»: essendo la bimba cittadina italiana, occorre valutare la natura del nome «con riferimento alla tradizione del nostro Paese».
Viene creato un precedente per il quale non solo esisterebbe una  cosiddetta corretta identificazione sessuale, ma essa passerebbe tanto attraverso l’attribuzione del nome proprio quanto attraverso la perentorietà della legge italiana nonché, con tutta probabilità, il senso di definitivo che origina dalle abitudini di chi giudica: tra il vietare a se stessi di chiamare Andrea la propria figlia e imporre analoga costrizione all’intero popolo, infatti, il passo è breve.

Il piccolo Gesù nasce dunque a Longarone, la piccola Andrea no. E visto che siamo in tema vale la pena evocare il nome di Anna, suocero di Caifa, sommo sacerdote ricordato negli Evangeli come implicato nel processo-farsa che mandò a morte, guarda caso, il sovversivo Gesù nella Palestina di duemila anni fa. Povero sommo sacerdote, direbbero i previdenti giudici mantovani scuotendo le autorevoli teste: la confusione sessuale nella quale l’incerto nome lo ha piombato ne ha segnato irreparabilmente le scelte esistenziali. Se Gesù, due millenni or sono, invece che in Palestina fosse nato a Longarone, forse la storia sarebbe andata in un altro modo.
 

mercoledì 28 dicembre 2011

Il cinepanettone è morto, viva il cinepanettone



Dopo trent’anni di onorata carriera, anche per il cinepanettone è giunto il momento della pensione.
Il classico film demenziale italiano creato ad uso e consumo di quanti, all’indomani dei consueti faraonici festeggiamenti natalizi, almeno per Santo Stefano decidono di schivare le tradizionali celebrazioni famigliari in favore di un più tamarro pomeriggio al cinema, quest’anno ha incassato solo 4 milioni di euro. Abbastanza, considerato il genere? No: il cinepanettone di ordinanza del 2010, dal fantasioso titolo di Natale in Sudafrica, ne ha incamerati, nello stesso periodo, qualcosa come 11 milioni.

Il flop è accompagnato da una serie di maledizioni in perfetto stile Fantasma dell’Opera: a Firenze una dignitosa signora ultrasettantenne, probabilmente capitata per caso in sala credendo di assistere alla proiezione di Rocco e i suoi fratelli, è morta d’infarto davanti a Vacanze di Natale a Cortina, il cinepanettone di quest’anno. Inutili i soccorsi. Ma, quel che è peggio, uno studio dell’Università di Leeds ha restituito al cinepanettone all’italiana la dignità decisamente ambigua di film per famiglie: circostanza che ne ha decretato, con buona pace dei fans, il completo affondo.
Niente più esibizioni a buon mercato di procaci forme femminili, evidenti doppi sensi, erotismo caciarone: il cinepanettone, come attesta il botteghino e in specie ora che guarda alla famiglia e ai valori della tradizione, appare moribondo.

Eppure, nel variegato universo del trash, la classica pellicola nostrana delle feste natalizie occupa tuttora, e a ben vedere sempre più, un posto d’onore; tanto che esiste persino un portale dedicato ai film italiani di Natale, cinepanettoni.it, rivolto ai pochi ma buoni e soprattutto tenaci estimatori del genere, con tanto di cinepanemenù (che non è la lista del cenone natalizio) nella homepage, i cinepanesocials per i coraggiosi che sbandierano la propria passione su facebook, l’immancabile cinepanepress e persino l’autoironica sezione dedicata agli errori nei film, che per quanto riguarda il cinepanettone sembrano abbondare più che in ogni altra categoria di pellicole. Insomma una pagina cult, confermata nella propria vocazione sovversiva nientemeno che da Joomla, software libero rilasciato con licenza open source e creato in ambito linux per una semplice realizzazione fai da te dei siti web, che gli utenti informatici alternativi ben conoscono e che mai immaginerebbero impiegato per la creazione della pagina ufficiale dei cinepanettoni all’italiana. Ma le vie del Signore sono infinite: soprattutto a Natale.

Non resta che adeguarsi alle circostanze e votarsi con spirito anarcoide al culto underground del cinepanettone, genere che tutto sommato ha avuto, almeno finora, il pregio di sdoganare l’argomento tabù per le famiglie italiane che si rispettino, ossia il sesso, e che di questo passo farà la stessa fine degli sgangherati film di Fulci oggi oggetto di un vero e proprio meritato revival.
Ma per chi proprio non riesce ad apprezzare, nemmeno nella versione cinematografica, il sapore artificiale e stucchevole del dolce di Natale più amato dagli italiani, suggeriamo l’alternativa meglio digeribile: il neonato cinecocomero. Non c’è che da attendere l’estate e la nuova tendenza del cinema nostrano, da pochi anni sugli schermi del Belpaese, farà dimenticare agli italiani i Natali a Cortina, i Natali sul Nilo, i Natali a Beverly Hills e perfino quelli degli antichi romani in favore del più leggero e godereccio frutto estivo. Come dicono i milanesi, cinc ghei de pü, ma ross: cinque soldi in più, ma rosse. Corre voce sia riferito alle angurie. Ma non c’è da esserne certi.
 

martedì 27 dicembre 2011

Regali di Natale

Il benemerito Cermes, che sta per Centro di Ricerca su Marketing e Servizi, nuovissima istituzione nata nel 2010 in seno alla prestigiosa Università Bocconi, ci informa che la spesa media per i regali di Natale si è ridotta dell’8,1% rispetto allo scorso anno.

In particolare quest’anno sarebbe di moda il dono cosiddetto funzionale, vero dominatore della scena natalizia rispetto al più vituperato regalo divertente, meno adeguato al periodo di crisi anche morale in cui versa l’Italia. Se in tempi meno austeri ci si concedeva volentieri il portacandela rosa a forma di membro virile, le carte da gioco fluorescenti, la cornice per fotografie gonfiabile e altre analoghe amenità del tutto inutili, adesso prediligiamo, almeno secondo il Cermes, piccoli o grandi elettrodomestici, eleganti accoppiate di sciarpa più guanto, calde copertine da divano adeguate al desiderio di famiglia che a Natale sembra improvvisamente ridestarsi da un letargo secolare, accappatoi e altri complementi da toilette di ogni colore e materiale e quant’altro sia reputato utile, senza domandarsi se la quinta trapunta in pile, il sesto servizio di posate, il cinquantesimo manicotto in ecopelle e il centomilionesimo cappellino di lana shetland, destinati ad imbottire armadi e bauli di mezza Italia nonché ad incoraggiare i giochi di ruolo e travestimento di legioni di ragazzini annoiati dalle protratte abbuffate festaiole, possano davvero essere considerati tali.

Per non parlare degli intramontabili doni gastronomici quali i miliardi di cioccolatini, panettoni, torroni, pandori, creme, salse, sottaceti, sottoli, formati di pasta bi, tri, quadri e pentacolore, spumanti fatalmente sempre brut per chi ama il dolce e sempre dolci per chi preferisce il secco, che ogni Natale costringono i morigerati italiani in piena crisi economica ad aggiungere buchi alla cintura. Cosa poi spinga i ricercatori del Cermes, evidentemente altrettanto obnubilati dalla mole di acquisti natalizi quanto lo è il campione da loro analizzato, a ritenere funzionale e non voluttuario un regalo come la coperta con le maniche o la borsa dell’acqua calda elettrica, oggigiorno di gran moda e senza le quali è divenuto davvero impossibile condurre un’esistenza degna di tale nome, questo è l’autentico mistero del Natale occidentale.

L’aria di austerità che spira in tempi di crisi economica, tuttavia, alla lunga stanca. E come in un romanzo a lieto fine, a consolazione di quanti rimpiangono le feste di una volta, la ricerca del Cermes afferma con decisione che i regali di Natale di lusso sono in netta tenuta: costituirebbero anzi una vera isola felice nell’irrequieto mare della disastrata economia nazionale.
Il collare tempestato di Swarovski, la custodia per ipad in vera pelle di alligatore, il contenitore per rossetto in oro dark 18 carati, quest’anno di gran moda, e infine, per i più sfortunati che lavorano anche durante le feste, il mouse in oro bianco e diamanti ideato dagli svizzeri che, godendosi i risparmi di mezza Europa depositati entro le loro accoglienti e discrete banche, se la ridono sotto i baffi, sarebbero in ultima analisi i regali più regalati dal popolo italico.

Ma per fortuna c’è papa Ratzinger: dalla sua pedana mobile che gli garantisce incolumità e ormai dimentico dell’incidente occorsogli durante la messa di Natale di qualche anno fa, quando una donna svizzera affetta da grave disagio psichico, la quale evidentemente trovava meno da ridere rispetto ai propri connazionali gioiellieri, lo ha spinto a terra, il sommo pontefice non ha rinunciato ad esporsi esortando nel contempo gli italiani all’umiltà e alla fraterna solidarietà, valori giusto in tema con il periodo buonista che ogni anno di questi tempi ossessiona pazienti psichiatrici e non.

Il papa ha ricordato al suo obnubilato popolo che «la gioia è il vero dono del Natale, non i costosi doni che costano tempo e soldi». E lui stesso dà il buon esempio: per mettere a tacere le eretiche e infide malelingue, infatti, il papa dal sorriso sulle labbra ha reso noto ormai da tempo che le sue purpuree babbucce, approvate dall’universo del fashion, non sono firmate Prada bensì Adriano Stefanelli, umile artigiano novarese che, nella sua insignificante carriera, ha vestito le estremità di sconosciuti personaggi quali l’impostore che si faceva chiamare Alessio II, il politico di quartiere Lech Walesa, uno sconosciuto che risponde al nome di Luca di Montezemolo e infine, ciliegina sulla torta, l’oscuro e sinistro afroamericano Barack Obama nonché un suo predecessore ossessionato dai carrarmatini giocattolo, tal George W. Bush.

Povero papa Ratzinger, ahi quanto gli costò l’aver amato il suo gregge spendaccione: l’umiltà lo costringe a cadere così in basso da non osare, per il bene dell’Italia in preda ad una epocale crisi finanziaria e morale, nemmeno l’acquisto di una calzatura comme il faut. L’artigiano Stefanelli infatti, conscio dell’abisso che lo separa da Prada, a differenza di quest’ultimo non osa pubblicare sul sito web nemmeno un prezzo. Ma si sa: l’umiltà non è questione di numeri.
 

venerdì 23 dicembre 2011

Onoranze natalizie

«Rispetta la vita» non è il nuovo slogan di una associazione di antiabortisti militanti e neppure il motto del pubblico servizio di parto segreto; non è una esortazione hippy all’amore universale e nemmeno l’articolo primo di qualche circolo vegano; è semplicemente la nuova campagna pubblicitaria di una catena di servizi funebri dell’Italia centrale, pomposamente ed onorevolmente denominata Taffo Funeral Services. I manifestoni della suddetta società che opera in un settore mai in crisi, evidentemente ispirati alla celebre produzione splatter del miglior Tarantino non meno che alla tutela del codice stradale, quest’anno propongono la loro macabra ironia d’autore.
«Mantieni sempre la distanza di sicurezza. E noi faremo altrettanto» suggerisce uno dei manifesti che in questi giorni tappezzano la capitale; «Non correre oltre i limiti. Noi non abbiamo fretta di vederti» proseguono le spiritose pompe funebri all’indirizzo degli incauti automobilisti: del resto è proprio per loro, i quali costituiscono buona parte dell’utenza cui la Taffo e le analoghe aziende si rivolgono, che sono pensati i megamanifesti stradali apparsi giusto in tempo per rovinare la dolce, spendacciona e un po’ beota atmosfera natalizia che aleggia sullo Stivale.
Il meglio tuttavia deve ancora venire, e arriva sotto forma di un memento mori che in questi giorni di cospicue libagioni festaiole suona quantomai sinistro: «Se hai bevuto fai guidare qualcun altro», tuonano i necrofori con accenti apocalittici, «o saremo noi a darti un passaggio». Ai ritardatari della notte di Natale, sperando che non sia l’ultima, o a chi è già proiettato verso i bagordi del Capodanno, le previdenti pompe funebri non mancano di suggerire: «Se sei stanco fermati subito. Meglio riposare in auto che da noi»; lapidaria esortazione che denota comunque una grande umiltà da parte del gruppo Taffo il quale, nonostante la raffinata comodità dei propri cofani funebri delle migliori marche sul mercato e, a richiesta, persino in forma di vera carrozza settecentesca trainata da cavalli «addestrati ad arte per il corteo funebre», è conscio di non poter competere con i favolosi interni delle auto degli italiani. Infine, poiché non c’è Natale senza Famiglia, due orsacchiotti immusoniti suggeriscono di far allacciare le cinture anche ai passeggeri altrimenti, aggiungono minacciosi, saranno costretti a «fare gli straordinari».
E’ rassicurante sapere che sull’incolumità del popolo italiano vegliano congiuntamente la Società Autostrade e, addirittura contro il proprio interesse, l’impresa di onoranze funebri più in del Paese. Gli italiani possono dormire sonni tranquilli (quantunque, beninteso, non mentre guidano) e pensare agli ultimi acquisti di Natale; per il resto c’è la Taffo che, dalle austere ma rassicuranti pagine del suo sito web, propone persino «funerali completi da 99 euro al mese, salvo approvazione Neos Finance spa, TAN 9,88 TAEG 12,62». Un’idea regalo per il Natale?
 

giovedì 22 dicembre 2011

Uniforme scolastica: la divisa che divide

Nel ridente paese apuano di Montignoso una preside di scuola pubblica ha partorito un’idea che nemmeno nel profondo nord brianzolo di Arcore sarebbe stata accolta con uniformità di vedute: figuriamoci dunque in un comune medaglia d’oro al valore civile per la Resistenza. L’idea in questione, semplice e a quanto pare già assai popolare presso gli studenti, è di introdurre la divisa scolastica: tutti dietro i banchi con il medesimo tutone, auspicabilmente non verde come il trainer della Nazionale Padana di Speroni, per dimostrare che, se è vero che l’abito non fa il monaco, ancora meno il giubbotto griffato fa lo studente.
La pensata della preside palesa infatti i migliori intenti socio-esistenziali: ovvero, secondo le stesse parole della dirigente in questione, poiché «i ragazzi si discriminano sulla base alla griffe sfoggiata», la volontà è quella di «diffondere un messaggio opposto: che il valore della persona non si attribuisce all’aspetto fisico o agli oggetti che possiede o indossa. Adottare, quindi, un abbigliamento d’istituto è semplicemente dare concretezza a questa dottrina teorica».

Tutto apparentemente condivisibile. Eppure la proposta, accolta con entusiasmo dalla maggior parte degli studenti, non è piaciuta ai genitori. E probabilmente non solo per motivi logistici: se è vero che la divisa è offerta da uno sponsor privato, è altrettanto evidente che lavare e stirare il tutto in tempi ragionevoli impone una certa dose di organizzazione. E il generoso benefattore apuano, che manco a dirlo è un imprenditore del marmo, pagherà una sola divisa per alunno, e il resto a carico delle famiglie, o prevederà l’auspicabile cambio fornendo adeguati doppioni in caso di rotture o macchie o impreviste sudate varie? Mistero.

E che dire delle scarpe? La scarpa, non prevista nella divisa scolastica, farà la differenza: come già la first lady turca che lo scorso novembre, di fronte ad una perplessa regina d’Inghilterra, sfoggiò un improbabile paio di elegantissimi stivaletti color avorio dal tacco vertiginoso, sorprendentemente accoppiati ad un abito che invece rivelava una austerità tutta islamica, anche a Montignoso le scarpe occhieggianti dall’orlo della divisa diventeranno il dettaglio che fa la differenza: perché c’è sempre un dettaglio che fa la differenza.
A parte tutto ciò che può passare o non passare per la testa dei genitori apuani, fatalmente appiccicata alla vicenda resta una pericolosa ombra di somiglianza con i contesti nei quali la divisa non solo è d’obbligo, ma genera anche l’identità del gruppo: eventualità abbastanza innocua, anche se non sempre, nello sport, meno innocua in altri più bellicosi contesti che guarda caso fanno presa sui giovani alla ricerca di sé.
Partendo dalla scuola si rischia di finire dove sono finiti gli studenti di un singolare esperimento condotto negli anni 60 in California e documentato, ben più recentemente, dal bel film tedesco del 2008 L’onda, nel corso del quale viene analizzata la fatale ambiguità del sentirsi appartenenti ad un gruppo che riassuma gli individui (con le loro differenze) nella sovrastante identità, unica e ben definita, del gruppo stesso, a partire proprio dal vestirsi tutti uguali e in questo caso tutti di bianco, il tipico colore innocente e neutrale: esperienza nata per contestare i ragazzi nella loro affermazione che una nuova dittatura di impronta nazista sia impossibile oggigiorno.

Dalla divisa alla brutalità del potere, insomma, come testimonia l’imprevedibile epilogo dell’esperimento-film, il passo è più breve di quanto non appaia. Non a caso nel 1938, anno sospettissimo, il fondatore degli Scout ebbe a dire che la divisa, da lui chiamata uniforme proprio in virtù del suo ruolo uniformante, «cela tutte le differenze di condizione sociale in un paese e favorisce l’uguaglianza; ma, cosa ancor più importante, copre le differenze di nazionalità e razza e fede, facendo sì che tutti si sentano appartenenti ad un’unica grande fratellanza»: bello e pericoloso come camminare sugli ormai paradigmatici trampoli della first lady turca. Ecco perché, forse, la preoccupazione delle mamme di Montignoso non è solo il cambio della divisa sporca.
 

mercoledì 21 dicembre 2011

Chi di Natale ferisce, di Natale perisce

Un Natale senza albero non è un Natale. Un Natale senza presepe non è un Natale. Un Natale senza panettone non è un Natale. Un Natale senza regali non è un Natale. Ma, per fortuna, a garantire agli italiani il corretto svolgimento della festa più spendereccia dell’anno ci pensano le centinaia di supermarket che, nel periodo prenatalizio e in ossequio alle tradizioni, si riempiono di merci fino a scoppiare.
Salmone affumicato di dozzine di marche diverse; scaffali interi di balocchi alla moda; alberi di ogni colore e materiale corredati di palline variopinte; statuine di plastica che raffigurano donzelle vestite di pelli o, a seconda della classe sociale e della gerarchia all’interno del presepe, di manti azzurri su abiti rosa, con stuoli di pecore o buoi o asinelli al seguito; e, infine, piramidi di panettoni che dopo le feste verranno svenduti ai pochi sovversivi i quali, avendo bandito il suddetto dolce dalla mensa natalizia, non ne sentiranno la nausea al solo pensiero. Cosa sarebbe il Natale senza tutto ciò?
Ne sanno qualcosa i norvegesi che, in questo critico periodo, hanno visto letteralmente scomparire dai banchi frigo dei supermercati un ingrediente fondamentale per l’auspicabile riuscita del Natale nordico: il burro. Niente possono gli insaziabili appetiti di tradizione del popolo norvegese; il burro latita e qualcuno già medita di rinunciare alla propria identità di vichingo divoratore di grassi animali per votarsi alla sconsiderata moda vegana.
Di fronte a scenari quasi bellici che vedono legioni di norvegesi varcare il confine con la Svezia per procacciarsi mezzo chilo del sospirato condimento o, addirittura, organizzare importazioni clandestine da immettere su un mercato nero agevolato dal periodo spendereccio e dal sentimento che il Natale, per un vero scandinavo, non è Natale senza i biscotti al burro, il governo ha capitolato e ha ridotto le tariffe doganali, fra le più alte al mondo, per favorire la vergognosa importazione degli imprescindibili panetti.
Lieto fine assolutamente natalizio, dunque, per una storiaccia che ha messo in ginocchio un intero popolo.
Eppure l’amaro in bocca resta; nemmeno il bue del presepe il quale, a ben vedere, nelle statuine tradizionali somiglia sempre più ad una placida vacca, potrebbe sopperire alla minaccia di una eventuale carenza di burro: vuoi per il sesso incerto, vuoi per la plastica natura, lo statuario bovino evidentemente non dà latte, neanche a Natale. Tanto meglio. Il miracolo mancato sarebbe finalmente l’occasione per riflettere sulle usanze che imprigionano: chi di tradizione ferisce,  infatti, di tradizione perisce. Anche a Natale.
 

lunedì 19 dicembre 2011

Scilipoti: orgoglio e pregiudizio

Il sito web del Movimento Responsabilità Nazionale, farcito di parole come un tacchino ripieno ma, a differenza di quest’ultimo, desolatamente scoraggiante, pare la vetrina personale dell’onorevole Domenico Scilipoti. Il resto del neonato movimento, ammesso e non concesso che esista, tace ammutolito e inibito dalla ingombrante presenza dell’agopuntore più famoso della politica italiana che, infatti, in ossequio alla tradizionale pratica medica orientale ha evidentemente deciso di farsi rappresentare dal simbolo del Tao, espressione nientemeno che dell’universo stesso. Contare le volte in cui all’interno del sito compare la parola Scilipoti (ma senza onorevole, che probabilmente evoca i fasti kitsch e fuori moda della battiatesca dinastia dei Ming) è impresa degna della pazienza di un trappista nella più stretta clausura.

Anche il sito personale di Scilipoti, va da sé, esibisce una monomania di preoccupante gravità e stavolta non verbale bensì grafica: il volto pieno e gagliardo da tenore decaduto campeggia ovunque, a mo’ di memento mori, nella pagina web del deputato; pagina che somiglia pericolosamente ai cataloghi delle vendite per corrispondenza dei fatali anni ottanta del Novecento, dove una sola modella, moltiplicata all’infinito dalla perizia dei tipografi dell’era pre-Flash, indossava tutti i vestiti, tutti gli accappatoi, le ciabattine, le vesti da camera, i corsetti ortopedici e quant’altro la fantasia degli antenati dell’e.commerce fosse in grado di suggerire. L’onorevole Scilipoti, insomma, parla di sé e, senza peraltro nulla aggiungere all’arte della ritrattistica fotografica, mette in mostra anche la sua immagine con una generosità commovente.

Ma come specificare una inclinazione autocelebrativa di così smisurate proporzioni? Ci soccorre un termine che spiega tutto: l’orgoglio. Definito come «forte senso di autostima e fiducia nelle proprie capacità» o ancora come «considerazione eccessiva di sé e dei propri meriti», l’orgoglio ben si adatta al carattere di Scilipoti. L’intensità con cui tale sentimento umano pervade l’onorevole agopuntore lo spinge addirittura a considerare l’orgoglio come parte integrante di tutte le psicologie umane, e non solo la propria.
Scilipoti si ritiene «sempre più orgoglioso» della propria scelta di aver salvato il governo Berlusconi, quando nel dicembre del 2010 impedì «che l’Italia, col voto di sfiducia, facesse un salto nel buio»? Benissimo. Anche Paola Concia, secondo l’onorevole agopuntore ospite ai microfoni di Klaus Davi, «è orgogliosa di essere lesbica». E poiché, come tutti gli orgogliosi, anche Scilipoti per così dire se le canta e se le suona, retoricamente aggiunge: «va bene, ma questo che significa? Anche una persona che si dichiara ladro si dice orgogliosa di esserlo, proprio perché si comporta in maniera diversa da tutti gli altri».

L’orgoglio come filosofico motore immobile dell’universo, o melodrammatica croce e delizia al cor, è insomma la misura di tutte le cose. Poco importa se la stessa Concia sorvola sugli sproloqui dell’agopuntore liquidandolo come un povero pazzo e i ladri dell’intero universo, così ben rappresentato dal simbolo orientaleggiante del Movimento di Responsabilità Nazionale, se la ridono sotto i baffi a sentirsi chiamare in causa nella medesima categoria di peccatori capitali cui appartiene il buon Scilipoti, ossia quella degli orgogliosi.

Ma si sa: siamo in Italia e la coerenza poco importa. Siano dunque perdonati a Scilipoti i frequenti scivoloni sui temi caldi della nostra società, dettati da un ego davvero troppo difficile da zittire: d’altra parte, come anche Jane Austen mette in bocca alla tagliente protagonista del suo Orgoglio e pregiudizio, la perfezione non è una categoria auspicabile in quanto «se tutto fosse perfetto» bisognerebbe aspettarsi «sicuramente qualche delusione». L’onorevole Scilipoti probabilmente non immagina nemmeno quali e quante delusioni risparmia agli italiani.
 

mercoledì 14 dicembre 2011

A Bossi la Padania, a Wotan il Valhalla

Le dichiarazioni che, come mine vaganti, il re padano Umberto Bossi lancia all’indirizzo dei suoi ex colleghi di governo, tra i quali non si salva nessuno, ricordano decisamente i grandiosi voltafaccia tipici dei personaggi maschili delle italianissime opere liriche di Giuseppe Verdi.

Tra tenori che tradiscono gli amici, baritoni voltafaccia e bassi dubbiosi, il tutto per inciso sempre all’italiana e vale a dire con riabilitazione finale delle peggiori malefatte, Bossi si troverebbe decisamente a proprio agio. Persino il colorito linguaggio del personaggio politico in questione, sebbene autodichiaratosi estraneo alle faccende italiane, restituisce in pieno la migliore tradizione melodrammatico-valorosa del Belpaese.

Secondo il sistema di valori tipico di Bossi, infatti, per quanto Tremonti sia «un uomo valido» l’accoglienza di costui nella Lega, beninteso, «dipende da noi». Cioè da lui: il Senatur che, sfoderando il melodrammatico e sempre duro ferro, oggi dà e domani toglie.
Monti «è cattivo» (ma Manzoni avrebbe detto «bravo») perché con la sua riforma delle pensioni minaccia la categoria più indifesa e anche, per inciso, quella che probabilmente costituisce l’elettorato più credibile di cui disponga la Lega: i cosiddetti, testuali parole, «vecchietti».
Berlusconi, squillino le trombe, fino a ieri valoroso cavaliere nonché compagno di avventure di Bossi, sarebbe diventato nientemeno che «un comunista»: decrepito insulto ormai valido per tutte le occasioni e dunque figurarsi per questa. L’eroe decaduto è servito.

Infine, piaccia o meno, come nel miglior finale d’opera si è svolta una sanguinosa battaglia, quella tra Padania e resto d’Italia, e manco a dirlo chi ha avuto la meglio è stata la Padania la quale, con la seguente lampante motivazione, si è guadagnata il diritto di battere moneta: «La Padania non tornerà più alla lira. Tornare alla lira per cosa? Per continuare a mantenere questi furfanti? Ha vinto la Padania» chiarisce Bossi. «L’Italia ha perso e ora in Europa nessuno vuole mettere i soldi in un fondo salva stati. I tedeschi giustamente non vogliono pagare i debiti dell’Italia e della Grecia, quindi non se ne farà niente. Non esiste un fondo che possa salvare gli stati. Una volta finito l’euro, la Padania si farà la sua moneta».

Ormai il Senatur vive in un’opera. Come Bela Lugosi che, ineguagliato interprete di Dracula, dopo aver puntato la sveglia per l’indomani si coricava tutte le sere in una bara, così Bossi, al pari di quel Don Alvaro di verdiana memoria che, orfano, si riteneva discendente della famiglia reale Inca, incorona se stesso sovrano dello stato della Padania. E tuttavia, a ben vedere, un Bossi padano è sempre meno credibile.

Considerata la tendenza tutta italiana che spinge il Nostro ad inscenare l’incompreso tenore di turno ovvero, a seconda dei casi, il contrariato baritono maledicente quando non il basso sicario, sarà ormai necessario che la Padania rinunci al Senatur e proceda all’incoronazione di un altro più credibile sovrano. Suggeriamo il nano Alberich, custode del tesoro dei Nibelunghi nonché personaggio di più dignitosa renana stirpe, disoccupato fin dai magri tempi della fine della tetralogia wagneriana.
E così, con buona pace di Wotan che dal Valhalla tuona le proprie ingiurie all’indirizzo del verdiano e, suo malgrado, mediterraneo Bossi, oltre alla neonata moneta forgiata in autentico oro del Reno la Padania crea anche nuovi posti di lavoro. D’altra parte, come fece notare un umorista statunitense, «l’opera lirica è un luogo dove un uomo viene pugnalato e, invece di morire, canta»: il massimo dell’efficienza.
 

lunedì 12 dicembre 2011

I gay e lo stronzio peruviano

Lo stronzio, malleabile metallo assai diffuso nel nostro pianeta e rinvenibile sia nella celestite che, appunto, nella stronzianite, è un elemento chimico che almeno una volta nella vita ha divertito un po’ tutti: dal bambino in età scolare che legge le prime etichette dell’acqua minerale, alla matricola della facoltà di Chimica in vena di goliardate, passando per le immancabili occhiatine sottobanco lanciate tra liceali nell’ora di scienze, lo stronzio non ha mai mancato alla propria esilarante vocazione.

L’elemento stronzio, che deve il nome all’ameno villaggio scozzese di Strontian, nelle Highlands, i cui dintorni sono ricchi di quel metallo, torna ora alla meritata ribalta grazie ad un altro luogo geografico: la città costiera di Huarmey, in Perù. Il sindaco di Huarmey, evidentemente in vena di popolarità a basso costo, ovvero in odore di collusione con le lobby degli imbottigliatori, ovvero affetto dalla ormai onnipresente vis polemica omofobica, ha messo in guardia i concittadini contro l’elemento chimico in questione, colpevole a suo dire di trasformare il tipico intrepido macho sudamericano, apprezzato da decenni in tutto il mondo, in un flaccido e pavido omosessuale.
Tale sorprendente metamorfosi avverrebbe in seguito all’ingestione di forti dosi di stronzio, metallo contenuto in una certa quantità nell’acqua pubblica di Huarmey (come nelle acque pubbliche del resto del mondo) i cui effetti collaterali sarebbero costituiti da un netto calo del testosterone: donde, va da sé, le mutate abitudini erotiche dei peruviani dopo abbondanti libagioni della vituperata acqua del rubinetto.

A parte la scontata associazione tra carenza di testosterone e desiderio omosessuale, che legioni di virilissimi gay palestrati possono quotidianamente smentire mediante la loro semplice presenza, ben farebbe il sindaco peruviano ad essere quel che è, ossia un sindaco, preoccupandosi di ciò che nel suo acquedotto potrebbe davvero risultare nocivo per la popolazione da lui amministrata, incluse le eventuali privatizzazioni di cui i politici di questo stampo malvolentieri parlano; e magari, con un auspicabile tocco di originalità, sfruttare la notizia per rilanciare il turismo gay-friendly in Sudamerica. La scoperta di una tale fonte miracolosa sarebbe una manna per i vacanzieri omosessuali in crisi d’identità: altro che Lourdes. Invece nell’acqua pubblica, fino a poco tempo addietro nel mirino degli speculatori anche qui da noi, in Sudamerica non si può sperare.

Ma per fortuna c’è Bruno Volpe, il fosco direttore di Pontifex.Roma.it, che in un breve editoriale insiste sulla non scientificità della notizia peruviana. La circostanza, poi, che il direttore non si ponga analogo scrupolo razionalistico poche righe più avanti, quando dichiara che l’orientamento omosessuale è «possibile causa» di malattie «come l’AIDS», poco importa; la smentita dei fatti in questione è quello che conta e stavolta il povero Volpe, che avrebbe preferito un miracoloso getto d’acqua di altra più religiosa natura, deve rinunciare a scagliarsi contro il nuovo nemico dell’umanità: il peruviano stronzio.
Per le mamme borghesi, sudamericane e non, il problema invece esiste eccome.
Accanto al calcare, eterna minaccia della buona casalinga affaccendata, compare ora un altro subdolo pericolo della chimica che si profila come autentico nemico dell’ordine morale: l’elemento stronzio. Parola del sindaco di Huarmey.
 

domenica 11 dicembre 2011

Sotto il Vasari niente

La fine del governo Berlusconi dev’essere stata un duro colpo per Matteo Renzi, il giovane e prestante sindaco di Firenze con la passione per il mestiere dello sfasciacarrozze. Evidentemente deluso dall’imprevista circostanza che Silvio si sia rottamato da solo, il bel Renzi, che al pari di un marmocchio irrequieto si diverte a distruggere qualsivoglia oggetto gli capiti fra le mani, ha rivolto altrove le sue deflagranti attenzioni.

Il malcapitato di turno, fortunatamente per lui passato da secoli a miglior vita, è nientemeno che Giorgio Vasari, pittore aretino non celeberrimo ma autore del brillante «Vite de’ più eccellenti pittori, scultori e architettori italiani, da Cimabue insino a’ tempi nostri», sorta di monumentale compendio di fatti altrui narrati con arguzia, gusto del pettegolezzo e stile enciclopedico. Il Vasari risulta colpevole di aver affrescato, nel Salone dei Cinquecento del fiorentino Palazzo Vecchio, le vituperate scene di battaglia che celebrano i fasti del granduca Cosimo I, famoso precursore di Renzi, sopra i resti delle geniali pitture di Leonardo in persona.

Narra infatti la storia del Salone dei Cinquecento che «fu il gonfaloniere Pier Soderini per primo a preoccuparsi della decorazione della sala, riuscendo ad accordarsi con i due più grandi artisti fiorentini dell’epoca, Leonardo da Vinci e Michelangelo Buonarroti, per la realizzazione di due grandi affreschi [...] con scene di battaglia che celebrassero le vittorie della Repubblica. Leonardo iniziò a realizzare la Battaglia di Anghiari, mentre a Michelangelo venne destinata un’altra porzione di parete per la Battaglia di Cascina.
I due affreschi monumentali [...] si dovevano trovare sul lato maggiore a est, ai lati del seggio del gonfaloniere, Michelangelo a sinistra e Leonardo a destra, mentre sul lato opposto doveva trovarsi un altare, quindi inadatto alla rappresentazione profana. I due geni del Rinascimento avrebbero avuto così modo di lavorare per un certo periodo faccia a faccia, ma nessuna delle loro opere fu mai completata: Leonardo sperimentò la tecnica dell’encausto, che si rivelò disastrosa, sciupando irrimediabilmente l’opera, mentre Michelangelo si fermò al solo cartone, prima di partire per Roma chiamato da Giulio II.
Entrambe le opere originali sono andate perdute, ma almeno ci sono pervenute delle copie e dei disegni preparatori».


Oggi Renzi, degnamente circondato dal suo manipolo di ingegneri rottamatori nonché in preda a visioni degne della più evidente sindrome di Stendhal, visioni che gli avrebbero rivelato la presenza del geniale e celebberimo Leonardo celato sotto il mediocre e misconosciuto Vasari, intenderebbe procedere ad una serie di fessurazioni dell’opera di quest’ultimo, alla ricerca del sottostante affresco-fantasma di leonardesca mano. Insomma, abbasso il celebrativo artigianato di cui peraltro nessuno parla e viva invece il genio autentico, che nello specifico caso di Leonardo sarebbe anche foriero di molta popolarità nonché, per dirla in termini rispettosamente adatti alle granducali circostanze, di moltissimi fiorini, a cominciare dai 250 mila euro già stanziati dal National Geographic per procedere quanto prima alla sconsiderata trivellazione. Cosimo I perdoni il termine, ma non si tratta precisamente di noccioline.

E non è tutto. Ben lungi dal far presente a Matteo Renzi che perforare un Vasari non è proprio la medesima cosa che ridipingere la carrozzeria di una Punto, la soprintendente dei musei fiorentini Cristina Acidini avrebbe concesso al sindaco il proprio autorevole avallo. Voci contrarie alla ennesima iniziativa rottamatrice del bel Renzi, considerata al pari di una spudorata operazione di marketing, si sono levate dall’Opificio delle Pietre Dure e dall’associazione Italia Nostra.
La pietra dello scandalo, ossia la cinquecentesca persona di Giorgio Vasari, è invece costretta al silenzio dalla ovvia circostanza di cui sopra che lo vede defunto da un pezzo.
Peccato per Renzi: se una visionaria macchina del tempo, come per magia, ci restituisse il Vasari in carne ed ossa pronto a celebrare l’attuale primo cittadino di Firenze, c’è da scommettere che anziché raffigurare i soliti nobili cavalieri e i soliti purosangue dalle lucide criniere, il pittore aretino si troverebbe a dover ripiegare su spinterogeni, pistoni, paraurti cromati e alzacristalli elettrici, per un risultato davvero innovativo che lo consegnerebbe alla storia dell’arte come e forse più di Leonardo da Vinci. Con buona pace del granduca Cosimo I e delle sue consuete, noiosissime scene di guerra.
 

Inammissibilità della proposta di abolizione dei vitalizi dei parlamentari.

Questo è il testo della e-mail che ho mandato ai 48 componenti la Commissione parlamentare:

"Ancora una volta, con motivazioni pretestuose, è stato dichiarata inammissibile la proposta di abolizione dei vitalizi dei parlamentari.
Ancora una volta, nel momento in cui si chiedono sacrifici, i parlamentari pensano a tutelare se stessi e fanno pagare ai cittadini, ai lavoratori, alle imprese ed alle famiglie il costo del risanamento, mentre dovrebbe essere proprio la politica a dare il buon esempio e rinunciare ai propri privilegi in un momento così difficile per tutto il Paese.
E’ proprio questo atteggiamento di autotutela che porta all’indignazione popolare e che allontana i cittadini dalla vita pubblica.
E’ stata scritta un'altra brutta pagina e sono tanti gli Italiani che non hanno più voglia di subire ingiustizie. Se i sacrifici li chiedete solo a noi, che già dobbiamo fare i salti mortali solo per sopravvivere, vi ritroverete con un popolo arrabbiato che non avrà più niente da perdere perché voi gli avrete tolto anche la dignità.
In fondo non chiediamo tanto: solidarietà e responsabilità per le persone che vi hanno dato così tanta fiducia da credere che voi avreste fatto i loro interessi. In questo modo dimostrate che state facendo solo i vostri.
Chiediamo significative correzioni per rendere più equa e sostenibile questa manovra, per ripartire i sacrifici in maniera più giusta. Chiediamo che la proposta di abolizione dei vitalizi venga accolta e chiediamo un taglio significativo a tutti quei privilegi che state ampiamente dimostrando di non meritare.
Sarebbe un segnale importante per ridare un minimo di credibilità alla politica, perché reperirebbe risorse importanti e perché renderebbero questa manovra socialmente ed economicamente giusta".


Aggiornamento delle 13:50.

Ho ricevuto risposta (per ora l'unica) dall'Onorevole Vassallo (PD):


Gentile Signore,

ricevo in questi giorni diverse mail simili alla sua, nella quale mi vengono rivolte gratuitamente accuse o frasi offensive.


Siccome molte riguardano il mio lavoro attuale, passato ed eventualmente futuro, qui trova qualche informazione sulle mie attività professionali
, precedenti alla prima elezione alla Camera dei Deputati, avvenuta nel 2008. In qualsiasi momento potrei tornare ad un mestiere che mi piace e in posizioni che ho raggiunto senza nessun aiuto familiare, politico, baronale o di altro genere, partendo da condizioni sociali non proprio favorevoli.


Qui invece
 trova quello che penso e ho cercato di fare, in Parlamento, in merito ai "costi della politica
". In quello stesso documento trova una analisi abbastanza dettagliata dei miei redditi attuali e di quelli passati
. In caso le possa interessare, tanto per farle capire che spesso si raccontano balle spaziali, le segnalo che vivo in un dignitoso appartamento di 115Mq+terrazza(30Mq)+Garage(20Mq), la mia famiglia non ha altre proprietà immobiliari, benché a lavorare, e parecchio, sin dai tempi in cui eravamo entrambi studenti universitari, siamo in due.


Le segnalo che è falso che mi sia opposto all'adeguamento del trattamento economico dei parlamentari agli standard europei in occasione dell'esame della manovra in Commissione Affari Costituzionali. La questione è leggermente più complicata di come la raccontano, mentendo deliberatamente, i sedicenti siti del Popolo Viola. Se avrà la pazienza di leggere anche la seconda parte della mail potrà rendersene conto.


La Commissione NON si è opposta all'adeguamento. Ha messo in evidenza che il metodo indicato dal Governo è incostituzionale. Il mestiere della Commissione Affari Costituzionali è proprio questo (anche per questo "siamo pagati"): segnalare se una legge rischia di essere censurata dalla Corte per incostituzionalità. Personalmente non sono intervenuto sullo specifico aspetto dei trattamenti economici dei parlamentari. Ho ad esempio posto dubbi dello stesso genere sulle parti del Decreto che riguardano le Province. Ma NON per impedire che le province vengano abolite (da tempo ho preso una posizione minoritaria nel gruppo PD proprio a tale riguardo
). L'ho fatto al contrario per DIFENDERE quella decisione dal rischio che venga vanificata, se le relative norme venissero dichiarate incostituzionali. Lo stesso discorso vale per l'adeguamento dei trattamenti economici dei parlamentari. In pratica: se il Governo non riscrive il decreto in una forma costituzionalmente accettabile, gli obiettivi che dice di voler perseguire (abolizione delle Province, adeguamento del trattamento economico dei Parlamentari), rischiano di rimanere lettera morta. Lo Commissione nel suo parere ha chiarito COME il governo dovrebbe riscrivere il decreto perché si possa arrivare agli stessi obiettivi senza correre questo rischio. Nella stessa direzione vanno del resto le dichiarazioni del capogruppo alla Camera del PD e del Presidente della Camera. 


Se qualcosa non le sembra chiaro, non esiti a riscrivermi.


Cordiali saluti.

Salvatore Vassallo


Ho capito: la proposta era incostituzionale e rischiava di venire censurata dalla Corte. Ma che vuol dire "incostituzionalità"? Come era stata scritta questa proposta da non poter passare l'esame? Com'è possibile che ancora e anche in questi casi il burocratese e il politichese siano un ostacolo? Non è che si potrebbero lasciar da parte e pensare una buona volta alla "sostanza" invece che alla "forma"?

 Nuovo aggiornamento
Chiarimento di "incostituzionalità":



In sintesi: il Governo, quale che sia il Presidente del Consiglio e quali che siano le sue buone intenzioni, nel nostro ordinamento non può modificare con un decreto le indennità di organi costituzionali (come il Parlamento) che dovrebbero controllarlo. Quindi si può e si deve procedere con una legge ordinaria, quanto prima. Cordiali saluti. S.V.


sabato 3 dicembre 2011

Hamburger omofobo per George Michael

Fa discutere il blog del gruppo, fino a ieri fantomatico, che risponde al nome di Christians For A Moral America, compagine fondamentalista dai toni apocalitticamente omofobi balzata all’onore della cronaca per un post pubblicato il 29 novembre scorso dal testuale ed evocativo titolo di: «Un’altra vittima dello stile di vita omosessuale; George Michael sul letto di morte».
In particolare fa discutere la conclusione del breve articolo i cui simpatici autori pregano affinché George Michael, omosessuale impenitente tuttora ricoverato in condizioni critiche per una grave polmonite, per salvarsi dalle fiamme eterne dell’inferno trovi ravvedimento mediante la conversione a Cristo «in his last days», nei suoi ultimi giorni, affermazione da cui si evince il dono di profezia di cui i Cristiani Morali sono dotati, almeno nel caso in questione, spacciando la nota popstar britannica come già quasi nella tomba.


Anche il resto dell’articolo, comunque sia, è un capolavoro di veggenza.
I Christians sanno per certo che la polmonite di George Michael è chiaro sintomo di quell’AIDS di cui sicuramente il depravato cantante è affetto, e che senz’ombra di dubbio il divo ha conosciuto gli abissi di abbrutimento del tunnel della droga e le più disparate e terribili malattie veneree.
Il segno estremo dell’abiezione è costituito poi dal singolare coming out del cantante, sorpreso durante un rapporto omosessuale consumatosi in una toilette pubblica che probabilmente i Cristiani Morali immaginano affollata di rispettabili mamme con lamentosi bimbi incontinenti al seguito, anziane signore dignitose cui l’età ha regalato il privilegio di un continuo stimolo a urinare e altre categorie umane dotate di solenne moralità nonché del sacrosanto diritto di lanciare maledizioni a destra e a manca, alla cui presenza l’osceno George Michael, circondato di maschioni assatanati, avrebbe sbottonato il proprio impermeabile.

D’altra parte non è lecito aspettarsi, dai Christians For A Moral America, argomenti più fantasiosi.
Scorrendo il loro blog, che nei toni pare la copia carbone, ma con grafica più dignitosamente severa, del nostrano Pontifex.Roma.it, il chiodo fisso è sempre il medesimo: l’omosessualità.
Veniamo ad apprendere infatti che un misterioso hacker, della cui identità nulla è certo se non che si tratta di «un omosessuale», avrebbe teso un bieco tranello informatico al degno blog, sventato poi dalla fantomatica «giustizia». Forse divina?
Scopriamo che in America esiste una catena di ristoranti, i Chick-Fil-A, di fronte ai quali la politica buonista del McDonalds è roba da pivelli, che con donazioni sostengono le associazioni cristiane pro life e che sono oggetto di sistematici boicottaggi da parte, manco a dirlo, «degli omosessuali»; chiunque intenda far conoscenza con gli adepti del movimento Christians For A Moral America sa dunque dove invitarli per un buon hamburger di pollo.

Ma non è tutto. Con un preziosismo neolinguistico degno degli Accademici della Crusca, i suddetti militanti etichettano i post che trattano di omosessualità come Gaystapo: apprendiamo così che una lobby omosessuale minaccia il mondo al pari dei giovanotti «venuti dal Brasile» del famoso film sui replicanti hitleriani.
Di questo pericoloso universo sotterraneo il povero George Michael, icona sexy degli anni ottanta e novanta, dal suo letto di ospedale probabilmente non conosce alcunché. Buon per lui. Gli auguriamo di poter presto sorridere delle maledizioni lanciate al suo indirizzo e festeggiare l’auspicabile guarigione con un bell’hamburger. Ma non da Chick-Fil-A.
   

giovedì 1 dicembre 2011

L'AIDS e l'acqua santa

Il primo dicembre di ogni anno ricorre la giornata mondiale contro l’AIDS.
La campagna di sensibilizzazione ideata quest’anno dalla Lila, la Lega Italiana per la lotta all’AIDS, gira intorno ad una fondamentale parola: semplicemente.
Difendersi dal virus HIV, in effetti, non è difficile.

In Gran Bretagna, ad esempio, alcuni predicatori evangelici sono riusciti a convincere molte persone positive all’HIV o addirittura già affette da AIDS che pregare sia la cura più efficace. In particolare il predicatore nigeriano che risponde al testuale nome di TB Joshua, ricchissimo leader della non povera associazione religiosa denominata Scoan, che sta per Synagogue Church Of All Nations, molto popolare oltremanica, avrebbe in mano la soluzione per l’AIDS nonché per i restanti mali del mondo.
Perché rimpinzarsi di quei farmaci che fanno scoppiare la testa, velocizzano le pelate incipienti e costringono a frequenti sedute nella stanza più umida di casa, quando è sufficiente un kit di cerulea acqua benedetta chiamata Anointing Water e ogni traccia del virus (ma anche, come si desume dal sito della Scoan, di eventuali ulcere del collo, tumori vaginali, disordini mentali e perfino degli immancabili sanguinamenti uterini di biblica memoria) scomparirà immantinente?
La soluzione, popolare oltremanica al punto da aver risolto alla radice il problema AIDS mandando all’altro mondo alcuni pazienti londinesi, almeno tre secondo la BBC, che hanno preso sul serio le miracolose terapie di Joshua, a ben vedere è semplice e davvero definitiva.

Non meno drastiche le soluzioni nostrane: accanto alla sempreverde castità, moda che al pari dei jeans non tramonta mai, fioriscono in ogni dove iniziative di preghiera per i malati di AIDS, forse sulla scia del recente viaggio papale nel continente dove il virus miete più vittime.
Da chi prega per le donne sieropositive, in particolare «le giovani mamme», a chi prega per l’onnipresente Africa, a chi si rivolge ai bambini, nessuno resiste al trend della preghiera, è proprio il caso di dirlo, in pillole.
Semplice e pratico. Ma per quanti non sono convinti appieno che la facoltà di proteggersi dalle malattie risieda nella frequenza o nell’intensità delle recite del Santo Rosario, l’unica via che resta è, come suggerisce la Lila, il preservativo. E se c’è bisogno di affermare che, oltre ad essere sicura, è anche la strada più semplice, semplicemente è perché non tutti lo sanno.