Nel ridente paese apuano di Montignoso una preside di scuola pubblica ha partorito un’idea che nemmeno nel profondo nord brianzolo di Arcore sarebbe stata accolta con uniformità di vedute: figuriamoci dunque in un comune medaglia d’oro al valore civile per la Resistenza. L’idea in questione, semplice e a quanto pare già assai popolare presso gli studenti, è di introdurre la divisa scolastica: tutti dietro i banchi con il medesimo tutone, auspicabilmente non verde come il trainer della Nazionale Padana di Speroni, per dimostrare che, se è vero che l’abito non fa il monaco, ancora meno il giubbotto griffato fa lo studente.
La pensata della preside palesa infatti i migliori intenti socio-esistenziali: ovvero, secondo le stesse parole della dirigente in questione, poiché «i ragazzi si discriminano sulla base alla griffe sfoggiata», la volontà è quella di «diffondere un messaggio opposto: che il valore della persona non si attribuisce all’aspetto fisico o agli oggetti che possiede o indossa. Adottare, quindi, un abbigliamento d’istituto è semplicemente dare concretezza a questa dottrina teorica».
Tutto apparentemente condivisibile. Eppure la proposta, accolta con entusiasmo dalla maggior parte degli studenti, non è piaciuta ai genitori. E probabilmente non solo per motivi logistici: se è vero che la divisa è offerta da uno sponsor privato, è altrettanto evidente che lavare e stirare il tutto in tempi ragionevoli impone una certa dose di organizzazione. E il generoso benefattore apuano, che manco a dirlo è un imprenditore del marmo, pagherà una sola divisa per alunno, e il resto a carico delle famiglie, o prevederà l’auspicabile cambio fornendo adeguati doppioni in caso di rotture o macchie o impreviste sudate varie? Mistero.
E che dire delle scarpe? La scarpa, non prevista nella divisa scolastica, farà la differenza: come già la first lady turca che lo scorso novembre, di fronte ad una perplessa regina d’Inghilterra, sfoggiò un improbabile paio di elegantissimi stivaletti color avorio dal tacco vertiginoso, sorprendentemente accoppiati ad un abito che invece rivelava una austerità tutta islamica, anche a Montignoso le scarpe occhieggianti dall’orlo della divisa diventeranno il dettaglio che fa la differenza: perché c’è sempre un dettaglio che fa la differenza.
A parte tutto ciò che può passare o non passare per la testa dei genitori apuani, fatalmente appiccicata alla vicenda resta una pericolosa ombra di somiglianza con i contesti nei quali la divisa non solo è d’obbligo, ma genera anche l’identità del gruppo: eventualità abbastanza innocua, anche se non sempre, nello sport, meno innocua in altri più bellicosi contesti che guarda caso fanno presa sui giovani alla ricerca di sé.
Partendo dalla scuola si rischia di finire dove sono finiti gli studenti di un singolare esperimento condotto negli anni 60 in California e documentato, ben più recentemente, dal bel film tedesco del 2008 L’onda, nel corso del quale viene analizzata la fatale ambiguità del sentirsi appartenenti ad un gruppo che riassuma gli individui (con le loro differenze) nella sovrastante identità, unica e ben definita, del gruppo stesso, a partire proprio dal vestirsi tutti uguali e in questo caso tutti di bianco, il tipico colore innocente e neutrale: esperienza nata per contestare i ragazzi nella loro affermazione che una nuova dittatura di impronta nazista sia impossibile oggigiorno.
Dalla divisa alla brutalità del potere, insomma, come testimonia l’imprevedibile epilogo dell’esperimento-film, il passo è più breve di quanto non appaia. Non a caso nel 1938, anno sospettissimo, il fondatore degli Scout ebbe a dire che la divisa, da lui chiamata uniforme proprio in virtù del suo ruolo uniformante, «cela tutte le differenze di condizione sociale in un paese e favorisce l’uguaglianza; ma, cosa ancor più importante, copre le differenze di nazionalità e razza e fede, facendo sì che tutti si sentano appartenenti ad un’unica grande fratellanza»: bello e pericoloso come camminare sugli ormai paradigmatici trampoli della first lady turca. Ecco perché, forse, la preoccupazione delle mamme di Montignoso non è solo il cambio della divisa sporca.