Dieci giorni fa la beatificazione di papa Wojtyla, un evento mediatico come mediatico è stato tutto il pontificato del polacco: dall'attentato alla predicazione, dalla morte alla vita "privata" (per quanto possa definirsi tale una esistenza papale), dalla malattia fino al processo di beatificazione. E che dunque, volenti o nolenti, ci coinvolge tutti.
Discutere la beatificazione o la santificazione di una persona è affare delicato. Molte voci, nel caso in questione, si sono autorevolmente levate a contestare la santità in chi non ha certo vissuto senza peccati: la sua posizione non proprio conciliante sul tema dell'AIDS e della sessualità o il larvato sostegno a regimi evidentemente dittatoriali sono due macchie che restano a velare la reputazione di un uomo, Karol Wojtyla, che pure ha fatto della pace la sua bandiera.
Il problema però, a mio avviso, risiede altrove: nel principio stesso della santità intesa come la intendono le gerarchie cattoliche, ossia come un surplus volto a rendere alcuni cristiani "migliori" (passatemi il termine) di tutti gli altri.
Un passo degli evangeli sinottici insegna e ammonisce che non sono i sani ad avere bisogno del medico, bensì i malati: il senso della stessa fede in Gesù non è quello di essere chiamati a santità in quanto perfetti, ma in quanto peccatori.
E per giunta consapevoli. E dunque, poiché disposti ad ammettere i propri limiti, altrettanto disposti a correggersi in un rivoluzionario tentativo di affermare una via alla santità universale che probabilmente ha contribuito a portare Gesù alla croce e la chiesa cattolica, successivamente, a non sentirci da quell'orecchio. Ma questa è un'altra storia.
Per tornare on topic un altro passo evangelico, famosissimo eppure troppo sovente disatteso, dichiara: non giudicate e non sarete giudicati. E la mia riflessione è anche questa: che cos'è la beatificazione di un mortale, santo o peccatore che sia, se non una forma di giudizio?
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