Mentre le scosse sismiche al nord riaccendono arcaiche paure di natura quasi millenaristica, gli italiani, evidentemente non del tutto tranquilli almeno finché non sarà trascorsa incolume la data del 12 dicembre 2012, presunta fine del mondo stando alle previsioni precolombiane ormai battute e ribattute dai media, ripescano la singolare figura di Raffaele Bendandi: l’uomo dei terremoti.
Faentino di nascita, astronomo autodidatta, Bendandi divenne famoso tra il ventennio fascista e l’era della prima televisione per le sue previsioni, alcune delle quali sorprendentemente azzeccate, dei terremoti italiani. Bendandi non era un professionista né riuscì ad esporre le proprie teorie sismologiche in una forma ritenuta accettabile da parte della comunità scientifica e tuttavia, complice la neonata dimensione parallela televisiva, egli divenne un autentico personaggio pubblico, da intervistare all’indomani dei sismi che sconvolgevano l’Italia e sui cui inascoltati avvertimenti ricamare storielle ad uso e consumo dei sudditi imbambolati di fronte alle scatole dei sogni: se proprio bisogna perire sotto un terremoto, almeno si perisca davanti alla TV.
Oggi che gli universi paralleli sono sempre più di moda non ha molta importanza che il Nostradamus dell’Appennino, che fra l’altro morì non avendo saputo prevedere la caduta di un pesante rullo della strumentazione pazientemente raccolta nella casa-osservatorio di Faenza giusto addosso alla sua persona, abbia partorito nella sua non breve esistenza un centinaio di previsioni di terremoti solo fino al 1977. Già corre la ghiotta notizia, affiliata al miglior filone catastrofico di cui la scatola dei sogni è ancora il principale mezzo di diffusione, che entro i primi giorni dell’aprile 2012 una serie di terremoti metterà in ginocchio il pianeta e in particolare il Belpaese: novella che si auspica verrà smentita, come già accaduto nel maggio 2011, dall’associazione nata in memoria e per la diffusione delle teorie del suddetto personaggio e che risponde al simpatico, un po’ prevedibile e per niente catastrofico nome di Bendandiana, con l’augurio altresì che il mondo vada avanti incolume, nonostante gli inevitabili sismi, almeno fino al suo presunto epilogo il prossimo dicembre; ovvero, per i più ottimisti, fino a quel 3797 che sarebbe appunto l’anno dell’ultima profezia di Nostradamus. Niente panico dunque: c’è tutto il tempo di finire di guardare il proprio programma preferito alla TV.
un blog dove si parla a ruota libera e dove i pomodori non vengono lanciati a nessuno
luna bianca luna nera è la luna del calendario, quella di tutti i giorni, perché in questo blog si parla di ciò che succede e di come lo sentiamo.
l'una bianca, l'una nera: qualcosa ci piace, qualcos'altro invece no. perché anche la luna ha un suo fondo di inquietudine.
l'una bianca, l'una nera: qualcosa ci piace, qualcos'altro invece no. perché anche la luna ha un suo fondo di inquietudine.
sabato 28 gennaio 2012
venerdì 27 gennaio 2012
I violini di Auschwitz
«Arbeit macht frei»: il lavoro rende liberi ovvero, traducendo per associazione di idee con un proverbio nostrano, il lavoro nobilita l’uomo, è la nota frase forgiata all’ingresso del campo di sterminio di Auschwitz che testimonia di come ordinarie attività umane, in questo caso il lavoro, possano essere trasfigurate fino ad assumere connotati antiumani. E’ successo nel cuore dell’Europa non molti decenni fa e la memoria di tanto orrore, l’abominio (Shoah) per dirla in termini ebraici, rischia di cancellarsi come le impronte dei prigionieri sotto la neve incessante del freddo inverno dei lager.
Così il proprio mestiere diventa strumento di offesa e di morte: i prigionieri costretti a lavorare negli stabilimenti tedeschi che producevano gli stessi gas tossici impiegati per ucciderli ne sono il tragico paradossale esempio. E dove l’ordinario diventa brutalità non può mancare la musica: costretti a suonare durante le adunate, le marce verso i forni crematori, i rientri dal lavoro o più semplicemente per intrattenere gli ufficiali nazisti, i prigionieri, in specie ebrei e rom che tuttora possiedono una grande e viva tradizione violinistica, coprivano il fragore del campo con le note dei loro strumenti e, mentre la musica altrove è espressione di vita, ad Auschwitz è strumento di morte.
Ai giorni nostri un liutaio di nome Amnon Weinstein ha rinvenuto e restaurato i violini appartenuti ai prigionieri ebrei dei campi di sterminio tedeschi.
Si tratta di qualche decina di strumenti di pregevole fattura e spesso decorati con stelle di David e altri motivi tradizionali, inventariati in una collezione dal significativo nome di «violini della speranza»: gli strumenti, alcuni dei quali hanno rivissuto tra le mani di interpreti del calibro di Shlomo Mintz, Weinstein li ha scovati con decennale pazienza in giro per l’Europa e fra la diaspora ebraica statunitense, e li ha raccolti con l’intento di farne rivivere gli interpreti, uomini e donne e ragazzi brutalmente uccisi, assieme ad altri milioni di inermi cittadini, nei campi di sterminio nazisti durante la seconda guerra mondiale.
Chissà cosa pensavano i prigionieri costretti a suonare mentre chi era già destinato alla morte faceva il suo ingresso nelle camere a gas; chissà quante volte le mani si rifiutavano di tirare l’archetto, i menti di sostenere gli strumenti, le dita di tendere le corde mentre intorno i corpi di altri prigionieri, magari anche il proprio fratello o sorella o la propria moglie o marito, venivano ammassati nei forni crematori. Chissà.
Far risuonare oggi i violini di Auschwitz significa anche fare i conti con l’abisso di chi, sopravvissuto, ha usato la musica come ennesimo strumento di morte in un luogo dove la sopraffazione è stata la regola, la misura di tutte le cose e dove le madri cantavano la ninnananna ai bambini sulla porta della camera a gas.
Alla domanda sul perché gli ebrei (e lo stesso dicasi per i rom) possiedano la grande tradizione violinistica che possiedono, un vecchio adagio yiddish risponde: provate voi a scappare con un pianoforte in spalla. Una eterna fuga dei diversi che non s’abbia a dimenticare.
Così il proprio mestiere diventa strumento di offesa e di morte: i prigionieri costretti a lavorare negli stabilimenti tedeschi che producevano gli stessi gas tossici impiegati per ucciderli ne sono il tragico paradossale esempio. E dove l’ordinario diventa brutalità non può mancare la musica: costretti a suonare durante le adunate, le marce verso i forni crematori, i rientri dal lavoro o più semplicemente per intrattenere gli ufficiali nazisti, i prigionieri, in specie ebrei e rom che tuttora possiedono una grande e viva tradizione violinistica, coprivano il fragore del campo con le note dei loro strumenti e, mentre la musica altrove è espressione di vita, ad Auschwitz è strumento di morte.
Ai giorni nostri un liutaio di nome Amnon Weinstein ha rinvenuto e restaurato i violini appartenuti ai prigionieri ebrei dei campi di sterminio tedeschi.
Si tratta di qualche decina di strumenti di pregevole fattura e spesso decorati con stelle di David e altri motivi tradizionali, inventariati in una collezione dal significativo nome di «violini della speranza»: gli strumenti, alcuni dei quali hanno rivissuto tra le mani di interpreti del calibro di Shlomo Mintz, Weinstein li ha scovati con decennale pazienza in giro per l’Europa e fra la diaspora ebraica statunitense, e li ha raccolti con l’intento di farne rivivere gli interpreti, uomini e donne e ragazzi brutalmente uccisi, assieme ad altri milioni di inermi cittadini, nei campi di sterminio nazisti durante la seconda guerra mondiale.
Chissà cosa pensavano i prigionieri costretti a suonare mentre chi era già destinato alla morte faceva il suo ingresso nelle camere a gas; chissà quante volte le mani si rifiutavano di tirare l’archetto, i menti di sostenere gli strumenti, le dita di tendere le corde mentre intorno i corpi di altri prigionieri, magari anche il proprio fratello o sorella o la propria moglie o marito, venivano ammassati nei forni crematori. Chissà.
Far risuonare oggi i violini di Auschwitz significa anche fare i conti con l’abisso di chi, sopravvissuto, ha usato la musica come ennesimo strumento di morte in un luogo dove la sopraffazione è stata la regola, la misura di tutte le cose e dove le madri cantavano la ninnananna ai bambini sulla porta della camera a gas.
Alla domanda sul perché gli ebrei (e lo stesso dicasi per i rom) possiedano la grande tradizione violinistica che possiedono, un vecchio adagio yiddish risponde: provate voi a scappare con un pianoforte in spalla. Una eterna fuga dei diversi che non s’abbia a dimenticare.
mercoledì 25 gennaio 2012
Di' la tua
I sondaggi del Corriere della Sera, riuniti nella rubrica dal significativo titolo di «Di’ la tua» e che nelle intenzioni del famoso quotidiano «hanno l’unico scopo di permettere ai lettori di esprimere la propria opinione sui temi di attualità», rivelano simpatiche sorprese sulle preferenze del popolo italiano.
Dai ristoranti del Friuli al dibattito ecologista sulle motoslitte, da Monti agli storici attaccanti del Milan, dai controlli antievasione all’opportunità del prato finto negli stadi, scorrere le risposte offre uno spaccato della mentalità del Belpaese.
Veniamo così a scoprire che, alla domanda «Stati Uniti: per mille dollari una macchina decifra il nostro Dna e calcola la predisposizione a certe malattie. La usereste?» gli italiani hanno risposto sì nel 74,8% dei casi: in barba alla crisi, per la salute non si bada a spese. Ma quando si tratta di dire la propria sull’argomento «Gli immigrati dovranno pagare fino a duecento euro per il permesso di soggiorno. È giusto?» il 64,8% risponde sì: a ciascuno la propria parte di sacrifici economici.
Se di fronte al quesito «Appello del club alpino lombardo contro le motoslitte: “rovinano le Alpi”. Siete d’accordo?» gli italiani, mostrando una encomiabile attenzione ai problemi ambientali, votano in massa (87,7%) per il sì, alla domanda «A Milano debutta l’area C, a Roma due giorni di targhe alterne. Ritenete utile questo tipo di misure?» la massa dei perfetti ecologisti si disperde e risponde sì soltanto una risicata maggioranza, lasciando immaginare che l’odiata motoslitta non faccia altro che rovinare le meritate ferie dei vacanzieri in suv.
Il sondaggio più alla moda, tuttavia, fa leva sull’inconscio: «Berlusconi: mai adozioni per i single né equiparazione tra unioni etero e omosessuali. Sei d’accordo?». La maggioranza degli italiani, va da sé, accanto agli scrupoli per l’integrità del territorio e alla tutela dei propri figli contro il pericolo immigrazione, è d’accordo con l’ex presidente del Consiglio. Il quale, tra parentesi, non si capisce a che titolo si permetta di intervenire su una questione che non lo dovrebbe più riguardare. Ma si sa: in Italia ciò che viene messo alla porta rientra puntualmente e sistematicamente dalla finestra.
Come il machismo: alla domanda «È giusto che delle giornaliste che vogliono condurre i telegiornali venga valutata anche la bella presenza?», infatti, rispondono no solo 44 italiani su 100: nell’era delle veline e degli ex premier orgogliosamente eterosessuali il vero talento resta sempre uno solo. E il vero volto dell’Italia, parimenti, non si smentisce mai.
Dai ristoranti del Friuli al dibattito ecologista sulle motoslitte, da Monti agli storici attaccanti del Milan, dai controlli antievasione all’opportunità del prato finto negli stadi, scorrere le risposte offre uno spaccato della mentalità del Belpaese.
Veniamo così a scoprire che, alla domanda «Stati Uniti: per mille dollari una macchina decifra il nostro Dna e calcola la predisposizione a certe malattie. La usereste?» gli italiani hanno risposto sì nel 74,8% dei casi: in barba alla crisi, per la salute non si bada a spese. Ma quando si tratta di dire la propria sull’argomento «Gli immigrati dovranno pagare fino a duecento euro per il permesso di soggiorno. È giusto?» il 64,8% risponde sì: a ciascuno la propria parte di sacrifici economici.
Se di fronte al quesito «Appello del club alpino lombardo contro le motoslitte: “rovinano le Alpi”. Siete d’accordo?» gli italiani, mostrando una encomiabile attenzione ai problemi ambientali, votano in massa (87,7%) per il sì, alla domanda «A Milano debutta l’area C, a Roma due giorni di targhe alterne. Ritenete utile questo tipo di misure?» la massa dei perfetti ecologisti si disperde e risponde sì soltanto una risicata maggioranza, lasciando immaginare che l’odiata motoslitta non faccia altro che rovinare le meritate ferie dei vacanzieri in suv.
Il sondaggio più alla moda, tuttavia, fa leva sull’inconscio: «Berlusconi: mai adozioni per i single né equiparazione tra unioni etero e omosessuali. Sei d’accordo?». La maggioranza degli italiani, va da sé, accanto agli scrupoli per l’integrità del territorio e alla tutela dei propri figli contro il pericolo immigrazione, è d’accordo con l’ex presidente del Consiglio. Il quale, tra parentesi, non si capisce a che titolo si permetta di intervenire su una questione che non lo dovrebbe più riguardare. Ma si sa: in Italia ciò che viene messo alla porta rientra puntualmente e sistematicamente dalla finestra.
Come il machismo: alla domanda «È giusto che delle giornaliste che vogliono condurre i telegiornali venga valutata anche la bella presenza?», infatti, rispondono no solo 44 italiani su 100: nell’era delle veline e degli ex premier orgogliosamente eterosessuali il vero talento resta sempre uno solo. E il vero volto dell’Italia, parimenti, non si smentisce mai.
lunedì 23 gennaio 2012
Come ti sbianco la diva
La cantante statunitense Beyoncé, icona della musica leggera coloured, sta diventando bianca.
Se non nella vita, quantomeno nella campagna pubblicitaria per una noto marchio di cosmetici la diva appare con lenti a contatto chiare e, grazie a photoshop, con un incarnato decisamente palliduccio che farebbe invidia al defunto Michael Jackson, celebre per le sue vere o presunte operazioni di chirurgia estetica volte ad assomigliare a quella casalinga olandese che costituiva il perfetto cliché di razza bianca in un’epoca in cui i programmi di fotoritocco erano ancora preistoria.
Su Jackson si tramanda fosse affetto da una malattia dermatologica: ma la ricostruzione del famoso nasino tradisce comunque ben altre intenzioni.
Di Beyoncé, invece, che dire? Per la diva afroamericana vestire i panni virtuali di una bellezza centroeuropea può forse essere un gioco pericoloso; un passatempo di grande attualità, quello di schiarirsi la pelle, che è testimoniato dai milioni di operazioni chirurgiche cui si sottopongono ogni anno veri e propri eserciti di donne afroamericane e che giustamente non piace né al popolo coloured, né agli individui ancora dotati di un grammo di buon senso. Già: perché è bene sapere che negli Stati Uniti ogni anno chiedono di diventare più simili al famoso modello caucasico oltre tre milioni di persone appartenenti ad altra etnia.
La verità è che, a leggere le pagine del gossip, se ne impara ogni giorno una nuova. La vicenda Beyoncé ad esempio insegna a milioni di ragazzine di pelle nera cos’è la tanto ambita razza caucasica, vera Araba Fenice di cui tutti parlano ma nessuno francamente ha la minima idea di cosa sia: e in effetti, come per la Fenice, anche per la razza caucasica sorgono ragionevoli sospetti riguardo la reale esistenza.
Dunque: alla voce caucasico Wikipedia afferma che «la scelta del termine è dovuta al ritenere che le persone d’incarnato roseo siano i discendenti dai superstiti sull’arca di Noè, che sarebbe approdata nel Caucaso». Sulla scientificità di tale credenza, prosegue l’enciclopedia on-line, la dice lunga la circostanza che «per i razzisti, che credono ancora nella validità scientifica del concetto di “razza”, il termine “razza caucasica” indica una razza specifica di Homo Sapiens, per la precisione i bianchi».
Inutile a questo punto precisare che tale terminologia, cara alle ragioni del razzismo spirituale partorito dalla mente di simpatici personaggi della risma di Julius Evola, «non segue il Codice Internazionale di Nomenclatura Zoologica».
A che serve, infatti, un codice internazionale di nomenclatura zoologica? Bastano la Bibbia, sulla quale il povero Galileo aveva già detto la sua giusto qualche secolo fa (le Scritture insegnino «come si vadia al cielo, e non come vadia il cielo») e l’amor proprio di certe minoranze di individui che, mistero, sono riusciti ad inculcare alla maggioranza delle persone la certezza che sia preferibile tramutarsi, in un modo o nell’altro e costi quello che costi, nel modello (minoritario) da essi stessi imposto: il tutto con la benedizione del prete, del chirurgo plastico oppure, come nel caso in questione, dei grafici pubblicitari web.
Per fortuna c’è Michelle Obama; ben lungi dal desiderare di passare la propria epidermide in candeggina, in questi primi tempi del 2012 la first lady inaugura il proprio profilo sul social network Twitter e, in poche ore, raggiunge le migliaia di fans: segno che i tempi apocalittici del bianco che più bianco non si può stanno auspicabilmente volgendo al termine e che, con buona pace di Beyoncé e del defunto Michael Jackson, ognuno si terrà la pelle entro la quale è venuto al mondo. Perché poi alla fine, all’ombra, non è forse vero che tutte le vacche, pardon, tutte le Arabe Fenici sono nere?
Se non nella vita, quantomeno nella campagna pubblicitaria per una noto marchio di cosmetici la diva appare con lenti a contatto chiare e, grazie a photoshop, con un incarnato decisamente palliduccio che farebbe invidia al defunto Michael Jackson, celebre per le sue vere o presunte operazioni di chirurgia estetica volte ad assomigliare a quella casalinga olandese che costituiva il perfetto cliché di razza bianca in un’epoca in cui i programmi di fotoritocco erano ancora preistoria.
Su Jackson si tramanda fosse affetto da una malattia dermatologica: ma la ricostruzione del famoso nasino tradisce comunque ben altre intenzioni.
Di Beyoncé, invece, che dire? Per la diva afroamericana vestire i panni virtuali di una bellezza centroeuropea può forse essere un gioco pericoloso; un passatempo di grande attualità, quello di schiarirsi la pelle, che è testimoniato dai milioni di operazioni chirurgiche cui si sottopongono ogni anno veri e propri eserciti di donne afroamericane e che giustamente non piace né al popolo coloured, né agli individui ancora dotati di un grammo di buon senso. Già: perché è bene sapere che negli Stati Uniti ogni anno chiedono di diventare più simili al famoso modello caucasico oltre tre milioni di persone appartenenti ad altra etnia.
La verità è che, a leggere le pagine del gossip, se ne impara ogni giorno una nuova. La vicenda Beyoncé ad esempio insegna a milioni di ragazzine di pelle nera cos’è la tanto ambita razza caucasica, vera Araba Fenice di cui tutti parlano ma nessuno francamente ha la minima idea di cosa sia: e in effetti, come per la Fenice, anche per la razza caucasica sorgono ragionevoli sospetti riguardo la reale esistenza.
Dunque: alla voce caucasico Wikipedia afferma che «la scelta del termine è dovuta al ritenere che le persone d’incarnato roseo siano i discendenti dai superstiti sull’arca di Noè, che sarebbe approdata nel Caucaso». Sulla scientificità di tale credenza, prosegue l’enciclopedia on-line, la dice lunga la circostanza che «per i razzisti, che credono ancora nella validità scientifica del concetto di “razza”, il termine “razza caucasica” indica una razza specifica di Homo Sapiens, per la precisione i bianchi».
Inutile a questo punto precisare che tale terminologia, cara alle ragioni del razzismo spirituale partorito dalla mente di simpatici personaggi della risma di Julius Evola, «non segue il Codice Internazionale di Nomenclatura Zoologica».
A che serve, infatti, un codice internazionale di nomenclatura zoologica? Bastano la Bibbia, sulla quale il povero Galileo aveva già detto la sua giusto qualche secolo fa (le Scritture insegnino «come si vadia al cielo, e non come vadia il cielo») e l’amor proprio di certe minoranze di individui che, mistero, sono riusciti ad inculcare alla maggioranza delle persone la certezza che sia preferibile tramutarsi, in un modo o nell’altro e costi quello che costi, nel modello (minoritario) da essi stessi imposto: il tutto con la benedizione del prete, del chirurgo plastico oppure, come nel caso in questione, dei grafici pubblicitari web.
Per fortuna c’è Michelle Obama; ben lungi dal desiderare di passare la propria epidermide in candeggina, in questi primi tempi del 2012 la first lady inaugura il proprio profilo sul social network Twitter e, in poche ore, raggiunge le migliaia di fans: segno che i tempi apocalittici del bianco che più bianco non si può stanno auspicabilmente volgendo al termine e che, con buona pace di Beyoncé e del defunto Michael Jackson, ognuno si terrà la pelle entro la quale è venuto al mondo. Perché poi alla fine, all’ombra, non è forse vero che tutte le vacche, pardon, tutte le Arabe Fenici sono nere?
martedì 17 gennaio 2012
Le autorità, il Giglio e la Concordia
Dov’erano le autorità prima del disastro?
Il comandante della Concordia è un criminale. Imbecille, ma criminale. Non c’è bisogno di commettere un reato scientemente per esserlo. Anche un imbecille incosciente che commette un reato è un criminale. E’ assodato, o no?
Il comandante Schettino, dunque, l’ha fatta grossa. Chi sa dov’era, mentre la Concordia andava dritta sulla secca, per non accorgersi di quello che stava accadendo. E’ un criminale, imbecille, ma criminale e la legge i criminali li punisce.
Dice, quella manovra, azzardata, fuorilegge, era all’ordine del giorno. La facevano tutte le navi di passaggio e per la Concordia non era la prima volta.
Ora mi chiedo, dov’erano la Capitaneria di Porto, il sindaco dell’Isola del Giglio, il Procuratore della Repubblica di Grosseto, fino ad oggi, ogni qual volta la Concordia e le altre navi manovravano sotto costa, in “area protetta” e sottoposta a stretti vincoli di legge?
E’ mai possibile che, fino ad ora nessuno se ne sia mai accorto, che nessuno abbia mai ravvisato un reato e che, il reato, per essere tale e far intervenire le autorità deve necessariamente raggiungere i livelli della tragedia umana e del disastro ambientale?
gv
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Conosci Bersani?
C’era una volta lo scivolone del Pd sulla mutata (correva la non remota estate del 2011) situazione politica italiana, quel «cambia il vento» che chiosava l’immagine di un paio di gambe di donna a stento coperte da una succinta minigonna scarlatta quasi strappata via dalla nuova brezza sinistrorsa: campagna pubblicitaria che fece giustamente storcere il naso a quante e quanti criticano l’uso strumentale del corpo femminile, consueto appannaggio del centrodestra becero e pecoreccio delle presidenziali scuderie, anche da parte di un partito politico che si dice democratico e progressista.
Caduto di cavallo il Cavaliere, tuttavia, l’armadio del Pd non riesce ancora a liberarsi dei propri polverosi scheletri mediatici e punta oggi su un altro tema scottante: dopo l’immagine del femminile è la volta, manco a dirlo, della famiglia.
«Conosci i miei?» è il patetico titolo della nuova iniziativa del maggior partito del centrosinistra nostrano: una serie di monocromi cartelloni pubblicitari volutamente oscuri, recanti la scritta «conosci Eva?» «conosci Faruk?» «conosci Tal dei Tali?» e via elencando, hanno nei giorni scorsi tappezzato la capitale, alimentando peraltro una polemica sull’eventuale abusivismo di molti dei manifesti in questione che invitano i malcapitati lettori a recarsi su Facebook, il social network più alla moda, e unirsi al gruppo omonimo per scoprire che cosa Luciano, Eva, Serena, Faruk e compagnia avrebbero in comune.
La risposta al quesito è essa stessa oscura e lasciata all’immaginazione delle poche centinaia, almeno finora, di fans del gruppo; in pratica tutto in famiglia: tra consorti, figli, generi, nuore, cognati, zii, cugini di Bersani, Letta, Migliavacca, Bindi, Di Traglia e chi più ne ha più ne metta, radunare sei o settecento persone è veramente un gioco da ragazzi.
L’insuccesso di queste campagne pubblicitarie della sinistra made in Italy, evidente già per la minigonna, è sfacciatamente palese nel caso del gruppo di Facebook, dove canta la carta e i numeri striminziti non si possono gonfiare come i palloncini rossi alle antiche feste dell’Unità.
Altrettanto chiare sono le motivazioni: appropriarsi di un lessico nonché, quel che è più importante, di un modus cogitandi che sono tipici del pensiero della destra reazionaria e retriva non può procacciare a Bersani e ai suoi un vivo consenso. Il coinvolgimento buonista dell’elettore, o del tesserato, nella grande famiglia del Pd basandosi sui valori della peggiore tradizione italiota dei vari «gnocca per tutti» oppure «di mamma ce n’è una sola» o ancora il classico corollario all’anello di fidanzamento del «ti presento i miei», è una operazione che fa letteralmente cadere le braccia. Gran problema: circostanza che impedisce, fra l’altro, di poter stringere appropriatamente la mano ai membri della rispettabile famiglia di Bersani.
Caduto di cavallo il Cavaliere, tuttavia, l’armadio del Pd non riesce ancora a liberarsi dei propri polverosi scheletri mediatici e punta oggi su un altro tema scottante: dopo l’immagine del femminile è la volta, manco a dirlo, della famiglia.
«Conosci i miei?» è il patetico titolo della nuova iniziativa del maggior partito del centrosinistra nostrano: una serie di monocromi cartelloni pubblicitari volutamente oscuri, recanti la scritta «conosci Eva?» «conosci Faruk?» «conosci Tal dei Tali?» e via elencando, hanno nei giorni scorsi tappezzato la capitale, alimentando peraltro una polemica sull’eventuale abusivismo di molti dei manifesti in questione che invitano i malcapitati lettori a recarsi su Facebook, il social network più alla moda, e unirsi al gruppo omonimo per scoprire che cosa Luciano, Eva, Serena, Faruk e compagnia avrebbero in comune.
La risposta al quesito è essa stessa oscura e lasciata all’immaginazione delle poche centinaia, almeno finora, di fans del gruppo; in pratica tutto in famiglia: tra consorti, figli, generi, nuore, cognati, zii, cugini di Bersani, Letta, Migliavacca, Bindi, Di Traglia e chi più ne ha più ne metta, radunare sei o settecento persone è veramente un gioco da ragazzi.
L’insuccesso di queste campagne pubblicitarie della sinistra made in Italy, evidente già per la minigonna, è sfacciatamente palese nel caso del gruppo di Facebook, dove canta la carta e i numeri striminziti non si possono gonfiare come i palloncini rossi alle antiche feste dell’Unità.
Altrettanto chiare sono le motivazioni: appropriarsi di un lessico nonché, quel che è più importante, di un modus cogitandi che sono tipici del pensiero della destra reazionaria e retriva non può procacciare a Bersani e ai suoi un vivo consenso. Il coinvolgimento buonista dell’elettore, o del tesserato, nella grande famiglia del Pd basandosi sui valori della peggiore tradizione italiota dei vari «gnocca per tutti» oppure «di mamma ce n’è una sola» o ancora il classico corollario all’anello di fidanzamento del «ti presento i miei», è una operazione che fa letteralmente cadere le braccia. Gran problema: circostanza che impedisce, fra l’altro, di poter stringere appropriatamente la mano ai membri della rispettabile famiglia di Bersani.
lunedì 16 gennaio 2012
Nel paese della "concordia"
Accade in Italia, nel paese della concordia.
Accade che un presidente del consiglio, quarta carica dello Stato, si porti nella residenza istituzionale un intero harem, ma senza eunuchi. Lui e i suoi sodali, elettori compresi sono concordi. E mentre l’Italia affonda gli eunuchi sono gli italiani evirati dei loro diritti.
Accade che il comandante di una nave da crociera se ne vada a spasso con la sua nave Concordia a spasso tra le secche dell’isola del Giglio invece di girare al largo. Lui abbandona la nave mentre passeggeri, equipaggio e magistratura non sono affatto concordi, mentre la nave affonda.
Accade che il governo del presidente del consiglio, quello del harem, non c’è più e nemmeno l’opposizione che non era concorde.
Accade che mentre l’Italia continua ad affondare sulle secche dell’Europa c’è un altro governo: quello della concordia. Quelli del governo del harem e quelli dell’opposizione concordano.
giuseppe vinci
http://www.trameindivenire.it/2012/01/16/nel-paese-della-concordia/
sabato 14 gennaio 2012
L'unico frutto della discordia
A sentir parlare di banane, quei buoni frutti ricchi di fosforo che piacciono un po’ a tutti, la prima psichedelica associazione di idee è pensare alla fantomatica eppure famosissima Repubblica delle banane: luogo ideale in cui sarebbe costantemente in vigore, secondo Wikipedia, un regime politico «instabile, dove le consultazioni elettorali sono pilotate, la corruzione è ampiamente diffusa così come una forte influenza straniera. [...] Per estensione il termine è usato per definire governi dove un leader forte concede vantaggi ad amici e sostenitori senza grande considerazione delle leggi e mettendo alla porta coloro che non l’hanno votato o appoggiato in senso economico e/o politico».
La popolarità che il dolce e sostanzioso frutto da sbucciare ha raggiunto in questi giorni non riguarda, però, né il famoso film di Woody Allen «Il dittatore dello stato libero di Bananas» e nemmeno, a scanso di equivoci, la situazione politica nostrana: la tropicaleggiante simpatica banana richiama semmai una ennesima querelle sul copyright, che concerne stavolta i cosiddetti diritti di sfruttamento di un logo celeberrimo, appunto la banana della copertina del disco che i Velvet Underground hanno pubblicato nel lontano e ormai mitico 1966, disegnata per il gruppo musicale nientemeno che da Andy Warhol in persona. La disputa è la seguente: poiché il logo pop, i cui diritti sono gestiti dalla Andy Warhol Foundation, richiama anche in maniera inequivocabile l’immagine dei Velvet Underground, questi ultimi chiedono (non, va da sé, a ritmo di rock bensì a suon di avvocati) una parte del malloppo.
La malinconica banana, che nella copertina delle primissime copie del disco uscì addirittura in versione sbucciabile con tanto di interno ambiguamente rosa, anch’esso partorito dal genio congiunto del leader dei Velvet, Lou Reed, e del suo amico Warhol, vede oggi tramontare il proprio mito: dietro le grandi amicizie, ormai, spuntano inesorabili le questioni di soldi. Ma tant’è.
Altro che Velvet Underground: oggidì, con i tempi che corrono, non si può più cantare nemmeno «l’unico frutto dell’amor / è la banana / è la banana». Il nostro amato frutto giallo non espone più il proprio ambiguo cuore rosa custodito dalle ammiccanti parole peel slowly and see, sbuccia lentamente e vedrai, bensì un prosaico verde-bigliettoni assai più consono alla società moderna. Morto il ’68, anche il ’66 comincia a non sentirsi troppo bene. Carenza di fosforo?
La popolarità che il dolce e sostanzioso frutto da sbucciare ha raggiunto in questi giorni non riguarda, però, né il famoso film di Woody Allen «Il dittatore dello stato libero di Bananas» e nemmeno, a scanso di equivoci, la situazione politica nostrana: la tropicaleggiante simpatica banana richiama semmai una ennesima querelle sul copyright, che concerne stavolta i cosiddetti diritti di sfruttamento di un logo celeberrimo, appunto la banana della copertina del disco che i Velvet Underground hanno pubblicato nel lontano e ormai mitico 1966, disegnata per il gruppo musicale nientemeno che da Andy Warhol in persona. La disputa è la seguente: poiché il logo pop, i cui diritti sono gestiti dalla Andy Warhol Foundation, richiama anche in maniera inequivocabile l’immagine dei Velvet Underground, questi ultimi chiedono (non, va da sé, a ritmo di rock bensì a suon di avvocati) una parte del malloppo.
La malinconica banana, che nella copertina delle primissime copie del disco uscì addirittura in versione sbucciabile con tanto di interno ambiguamente rosa, anch’esso partorito dal genio congiunto del leader dei Velvet, Lou Reed, e del suo amico Warhol, vede oggi tramontare il proprio mito: dietro le grandi amicizie, ormai, spuntano inesorabili le questioni di soldi. Ma tant’è.
Altro che Velvet Underground: oggidì, con i tempi che corrono, non si può più cantare nemmeno «l’unico frutto dell’amor / è la banana / è la banana». Il nostro amato frutto giallo non espone più il proprio ambiguo cuore rosa custodito dalle ammiccanti parole peel slowly and see, sbuccia lentamente e vedrai, bensì un prosaico verde-bigliettoni assai più consono alla società moderna. Morto il ’68, anche il ’66 comincia a non sentirsi troppo bene. Carenza di fosforo?
giovedì 12 gennaio 2012
(A)normalità
Stanno facendo il giro del web, accompagnate dal comprensibile scalpore che le dichiarazioni del genere non mancano mai di suscitare, le parole del teleprofessore di medicina più popolare dell’etere, lo psichiatra Francesco Bruno: lo strizzacervelli televisivo ha infatti solennemente annunciato per l’ennesima volta che «l’omosessualità va considerata anormalità»; fin qui, visto che l’Italia è un paese in cui ciascuno resta libero di dire la propria, passi. Ma se si considera che nel lontano 1990 l’Organizzazione Mondiale per la Sanità, a dispetto di Bruno, ha depatologizzato l’orientamento omosessuale, la circostanza che proprio un medico si prenda la briga di smentire autorevoli colleghi di livello internazionale sulla base della propria percezione individuale lascia francamente senza parole: e meno male, perché di parole abbonda già a sufficienza l’accademico labbro di Francesco Bruno.
Il culmine del trash verbale il professore lo raggiunge infatti in un paio di affermazioni rilasciate alla vecchia volpe che è appunto Volpe, arcinoto direttore del blog Pontifex, testata ultrareazionaria che volentieri, manco a dirlo, ospita gli sproloqui del nostro: «Io ho il diabete» afferma infatti il professor Bruno; «non mi offendo se qualcuno mi dice che sono malato, è la realtà. Bene, per quale motivo gli omosessuali si offendono se qualcuno, correttamente, parla di patologia?». Ordunque: il diabete secondo Bruno è una condizione di cosiddetta anormalità, ammesso e non concesso di essere certi su cosa sia, invece, la normalità. Ma per una volta ammettiamolo; e concediamolo pure.
Il professore quindi prosegue. «Una eccessiva tolleranza verso stati di anormalità, e l’omosessualità tale va considerata, ci porta alla conclusione che la gente si confonda e non capisca più cosa è il bene e che cosa è il male». Perché dunque, dal punto di vista del telemedico, considerare un diabetico, cui lo stesso professor Bruno ha posto l’etichetta di difforme dalla normalità, come oggetto di umana tolleranza? Perché rendersi in tal modo complici della generale confusione nella comprensione di ciò che è bene e ciò che è male? Professore, attento alle spalle: le sue parole sono un boomerang.
Ma per fortuna, dottor Bruno, la salvano i meriti: un suo degno collega e predecessore, il medico Sorano di Efeso, molti secoli fa ebbe a scrivere: «Come lo strumento che, applicato ad un vaso, quando il recipiente è pieno fino all’orlo fa colare il liquido, così il diabete causa l’impulso intrattenibile ad urinare». Nel caso in questione, ciò che segna la vera svolta nel campo scientifico, lo stimolo è piuttosto quello alla farneticazione: grazie ai meriti, normali o anormali, del professor Francesco Bruno, un nuovo capitolo della storia della medicina è ora aperto.
Il culmine del trash verbale il professore lo raggiunge infatti in un paio di affermazioni rilasciate alla vecchia volpe che è appunto Volpe, arcinoto direttore del blog Pontifex, testata ultrareazionaria che volentieri, manco a dirlo, ospita gli sproloqui del nostro: «Io ho il diabete» afferma infatti il professor Bruno; «non mi offendo se qualcuno mi dice che sono malato, è la realtà. Bene, per quale motivo gli omosessuali si offendono se qualcuno, correttamente, parla di patologia?». Ordunque: il diabete secondo Bruno è una condizione di cosiddetta anormalità, ammesso e non concesso di essere certi su cosa sia, invece, la normalità. Ma per una volta ammettiamolo; e concediamolo pure.
Il professore quindi prosegue. «Una eccessiva tolleranza verso stati di anormalità, e l’omosessualità tale va considerata, ci porta alla conclusione che la gente si confonda e non capisca più cosa è il bene e che cosa è il male». Perché dunque, dal punto di vista del telemedico, considerare un diabetico, cui lo stesso professor Bruno ha posto l’etichetta di difforme dalla normalità, come oggetto di umana tolleranza? Perché rendersi in tal modo complici della generale confusione nella comprensione di ciò che è bene e ciò che è male? Professore, attento alle spalle: le sue parole sono un boomerang.
Ma per fortuna, dottor Bruno, la salvano i meriti: un suo degno collega e predecessore, il medico Sorano di Efeso, molti secoli fa ebbe a scrivere: «Come lo strumento che, applicato ad un vaso, quando il recipiente è pieno fino all’orlo fa colare il liquido, così il diabete causa l’impulso intrattenibile ad urinare». Nel caso in questione, ciò che segna la vera svolta nel campo scientifico, lo stimolo è piuttosto quello alla farneticazione: grazie ai meriti, normali o anormali, del professor Francesco Bruno, un nuovo capitolo della storia della medicina è ora aperto.
martedì 10 gennaio 2012
16 battesimi e nessun funerale
Lui in sobrio abito scuro, cravatta in tinta, bianco colletto apocalitticamente candeggiato e mento accuratamente rasato; lei in elegante pastrano scuro come la notte, dal collo abbondante, mêches bionde sui capelli castano chiaro, trucco naturale; in braccio (alla madre, rigorosamente) il pupo biancovestito con abito dal prezioso strascico. L’ennesimo secondo o terzo matrimonio di qualche star del cinema francese non più di primo pelo? Le nozze di una oscura coppia di regnanti europei già baciati dalla dea della fecondità?
Niente di tutto ciò. Si tratta della fotografia di uno dei battesimi che sono stati celebrati da papa Ratzinger nell’invidiabile scenario della Cappella Sistina in occasione del Battesimo del Signore, festa religiosa che cade ogni anno la prima domenica dopo il 7 gennaio.
L’occasione di quest’anno ha visto ben sedici neonati, non certo figli delle barbone di Termini bensì, più appropriatamente, progenie di altrettante rispettabili coppie di dipendenti vaticani, che hanno atteso tra un pianto e un vagito di essere inumiditi dalle mani papali, facendo così il loro ingresso nel jet-set della Chiesa Cattolica Apostolica Romana.
Niente di tutto ciò. Si tratta della fotografia di uno dei battesimi che sono stati celebrati da papa Ratzinger nell’invidiabile scenario della Cappella Sistina in occasione del Battesimo del Signore, festa religiosa che cade ogni anno la prima domenica dopo il 7 gennaio.
L’occasione di quest’anno ha visto ben sedici neonati, non certo figli delle barbone di Termini bensì, più appropriatamente, progenie di altrettante rispettabili coppie di dipendenti vaticani, che hanno atteso tra un pianto e un vagito di essere inumiditi dalle mani papali, facendo così il loro ingresso nel jet-set della Chiesa Cattolica Apostolica Romana.
«Il battesimo», ha detto il papa evidentemente dimentico che, oltre ai lustrini cattolici apostolici romani, esiste al mondo una varietà di religioni che per chi le professa sono state donate all’uomo da Dio tanto come il cattolicesimo, «è la prima scelta educativa». Difficile immaginare che, estrema unzione a parte, possa esisterne un’ultima; ma come slogan cinematografico va decisamente bene così.
venerdì 6 gennaio 2012
Befane lesbiche
La Befana, è ben noto, è la festa di tutte le donne. La vecchietta un po’ scorbutica dal cuore d’oro che distribuendo piccoli doni, ben più proletari rispetto a quelli magniloquenti del collega capitalista Babbo Natale, si porta via tutte le feste, somiglia davvero al concetto del femminile: mutevole e popolare, dolce e sanguigna, ironica e malvestita, la befana è l’archetipo di ciò che non sembra ma è, di ciò che le apparenze nascondono, di ciò che non si può dire. Perfetta per tutte le donne, che le assomiglino o no, la Befana parla di donne: di ciò che le donne non sono, di ciò che vorrebbero essere, di ciò che non vorrebbero essere e persino di ciò che non sono.
Ma c’è di più: poiché delle donne anziane, come se lo sfiorire della bellezza giovanile negasse automaticamente l’identità femminile, non si parla mai, la Befana è anche una importante occasione di riflessione su come la società moderna vede la donna e sui ghetti di lustrini e belle apparenze nei quali, l’attualità delle varie suobrette rubacuori insegna, la relega. Inoltre il legame tra Befana ed il concetto del manifestarsi, nel caso occidentale l’epifania cristiana del piccolo Gesù ai Magi, dona alla famosa vecchietta un’aura di introspezione psicologica che in altri personaggi popolari o mitici non è altrettanto evidente.
Perfetto per l’occasione befanesca è quindi il libro della psicoterapeuta statunitense Karol Jensen, Lesbian Epiphanies, una pubblicazione che parla delle donne che acquisiscono consapevolezza della propria omosessualità tardi nella vita, magari dopo un matrimonio e una famiglia tradizionale, e dell’impatto che i cliché sociali hanno su questo genere di esistenze. Attraverso l’esame di una ventina di casi del genere, il libro s’interroga sui motivi che spingono le donne a nascondere la propria sessualità per così tanto tempo.
L’ingrediente psicologico, la presenza di befane tardone che non sono consapevoli del loro essere tali, ossia di avere un potenziale lato di ribelle autonomia, e le molte storie di rinnegamento della propria identità lesbica a seguito della visione negativa che la società ha della sessualità femminile (in tutte le sue forme, a ben vedere) rendono il libro un prezioso regalo per le befane anglofone e una valida occasione di riflessione per tutti. Se la Befana di quest’anno, in piena crisi economica, si dovesse dimenticare di riempire le calze ansiose di aggiungere questo libro alla propria lista di letture per il 2012, una cospicua selezione è facilmente reperibile anche su internet: nel suo essere donna, anziana, lesbica e persino un po’ comunista, la Befana è davvero una sovversiva.
Karol L. Jensen
Lesbian Epiphanies: Women Coming Out in Later Life
Harrington Park Press, giugno1999
228 pagine, 26,97 euro
(in inglese)
Ma c’è di più: poiché delle donne anziane, come se lo sfiorire della bellezza giovanile negasse automaticamente l’identità femminile, non si parla mai, la Befana è anche una importante occasione di riflessione su come la società moderna vede la donna e sui ghetti di lustrini e belle apparenze nei quali, l’attualità delle varie suobrette rubacuori insegna, la relega. Inoltre il legame tra Befana ed il concetto del manifestarsi, nel caso occidentale l’epifania cristiana del piccolo Gesù ai Magi, dona alla famosa vecchietta un’aura di introspezione psicologica che in altri personaggi popolari o mitici non è altrettanto evidente.
Perfetto per l’occasione befanesca è quindi il libro della psicoterapeuta statunitense Karol Jensen, Lesbian Epiphanies, una pubblicazione che parla delle donne che acquisiscono consapevolezza della propria omosessualità tardi nella vita, magari dopo un matrimonio e una famiglia tradizionale, e dell’impatto che i cliché sociali hanno su questo genere di esistenze. Attraverso l’esame di una ventina di casi del genere, il libro s’interroga sui motivi che spingono le donne a nascondere la propria sessualità per così tanto tempo.
L’ingrediente psicologico, la presenza di befane tardone che non sono consapevoli del loro essere tali, ossia di avere un potenziale lato di ribelle autonomia, e le molte storie di rinnegamento della propria identità lesbica a seguito della visione negativa che la società ha della sessualità femminile (in tutte le sue forme, a ben vedere) rendono il libro un prezioso regalo per le befane anglofone e una valida occasione di riflessione per tutti. Se la Befana di quest’anno, in piena crisi economica, si dovesse dimenticare di riempire le calze ansiose di aggiungere questo libro alla propria lista di letture per il 2012, una cospicua selezione è facilmente reperibile anche su internet: nel suo essere donna, anziana, lesbica e persino un po’ comunista, la Befana è davvero una sovversiva.
Karol L. Jensen
Lesbian Epiphanies: Women Coming Out in Later Life
Harrington Park Press, giugno1999
228 pagine, 26,97 euro
(in inglese)
lunedì 2 gennaio 2012
Pace, aborto e paradossi
Non c’è pace se c’è aborto: il legame tra queste due parole, ormai divenute slogan da gridare a denti serrati ogni qualvolta l’arenarsi di una dialettica, ovvero la mancanza di argomenti meno ammuffiti, ne forniscano l’esigenza, sembra una costante della nostra attualità.
Come certa musica cosiddetta contemporanea ma nella realtà già da mezzo secolo in circolazione, così anche l’associazione tra cultura della pace e lotta all’interruzione di gravidanza più o meno volontaria, spacciata per concetto fondamentale, ci perseguita cacofonicamente al pari.
Da un po’ di tempo a questa parte quasi ogni primo gennaio, giornata mondiale della pace, il suddetto fatale collegamento di concetti si mostra misticamente alla somma autorità cattolica di turno con la stessa virulenza con cui Carmelo Bene sosteneva di essere «apparso alla Madonna». L’eredità di Giovanni Paolo II con il suo «non può esserci pace autentica senza rispetto per la vita» dove vita, s’intenda, è curiosamente da leggersi come embrione, è stata degnamente raccolta da papa Ratzinger: il primo gennaio 2007 egli infatti dichiarò che «accanto alle vittime dei conflitti armati, del terrorismo e di svariate forme di violenza, ci sono le morti silenziose provocate dalla fame, dall’aborto, dalla sperimentazione sugli embrioni e dall’eutanasia. Come non vedere in tutto questo un attentato alla pace?».
La domanda retorica finale, concepita come calcio nello stomaco dei buoni cattolici praticanti e degna di uno dei più bei paradossi usciti dalla penna di Umberto Eco, il suo «c’è davvero bisogno di domande retoriche?», già da sola chiarisce gli intenti di chi l’ha formulata: imporre la propria Weltanschauung come è solito fare il papa tedesco è segnale di un atteggiamento non propriamente pacifico. Ma si sa, sovente chi di retorica ferisce di paradosso perisce.
Alla tentazione di associare l’aborto alla guerra non è stata esente nemmeno il premio nobel per la pace Madre Teresa di Calcutta, secondo la cui belligerante opinione «oggigiorno il più grande distruttore di pace è l’aborto, perché è una guerra diretta, una diretta uccisione, un diretto omicidio per mano della madre stessa». Come non sentirsi schiacciati da tale e tanta sicumera? Già dai toni pare di assistere ad una novella Apocalisse scoppiata come un fungo atomico tra le corsie d’ospedale, nel dramma di chi rinuncia alla propria gravidanza e si vede oltretutto mancare la minima comprensione altrui. Sopraffino in questo caso il paradosso: chi si proclama seguace di un tale che una volta disse: «non giudicate e non sarete giudicati», si prende il diritto di farlo, ossia di giudicare, esattamente nel nome di lui. A fronte di una tale sublime contorsione, mentale e sostanziale, nessun retore saprebbe fare meglio.
Invece ci soccorre ancora Benedetto XVI che, tanto per ribadire il concetto, lo scorso primo gennaio è passato dalla consueta domanda retorica, ormai evidentemente reputata superflua, al sillogismo degno del miglior Aristotele. Il papa ha infatti affermato, nell’ambito del suo discorso in occasione della giornata della pace, che la maternità è «sempre stata associata alla benedizione di Dio». Ora, sappiano i fedeli cattolici nonché, vista la risonanza mediatica dei discorsi del primate della chiesa Roma, anche i fedeli non cattolici per non parlare dei non fedeli, insomma sappia l’intero orbe terracqueo che la pace «è la somma e la sintesi di tutte le benedizioni». Dunque cosa ne consegue? Se la fecondità è benedetta e le benedizioni sono pace, persino un ragazzino saprebbe tirare, assieme all’acqua al mulino papale, anche le dovute conclusioni del caso. Ma tant’è: ogni popolo ha le figure retoriche che si merita fin dalla tenerissima infanzia. C’è soltanto da sperare, come suggerisce l’umorista siciliano Panarello, che alla famosa madre dei cretini, sempre in stato interessante, venga finalmente offerto l’aborto gratis.
Come certa musica cosiddetta contemporanea ma nella realtà già da mezzo secolo in circolazione, così anche l’associazione tra cultura della pace e lotta all’interruzione di gravidanza più o meno volontaria, spacciata per concetto fondamentale, ci perseguita cacofonicamente al pari.
Da un po’ di tempo a questa parte quasi ogni primo gennaio, giornata mondiale della pace, il suddetto fatale collegamento di concetti si mostra misticamente alla somma autorità cattolica di turno con la stessa virulenza con cui Carmelo Bene sosteneva di essere «apparso alla Madonna». L’eredità di Giovanni Paolo II con il suo «non può esserci pace autentica senza rispetto per la vita» dove vita, s’intenda, è curiosamente da leggersi come embrione, è stata degnamente raccolta da papa Ratzinger: il primo gennaio 2007 egli infatti dichiarò che «accanto alle vittime dei conflitti armati, del terrorismo e di svariate forme di violenza, ci sono le morti silenziose provocate dalla fame, dall’aborto, dalla sperimentazione sugli embrioni e dall’eutanasia. Come non vedere in tutto questo un attentato alla pace?».
La domanda retorica finale, concepita come calcio nello stomaco dei buoni cattolici praticanti e degna di uno dei più bei paradossi usciti dalla penna di Umberto Eco, il suo «c’è davvero bisogno di domande retoriche?», già da sola chiarisce gli intenti di chi l’ha formulata: imporre la propria Weltanschauung come è solito fare il papa tedesco è segnale di un atteggiamento non propriamente pacifico. Ma si sa, sovente chi di retorica ferisce di paradosso perisce.
Alla tentazione di associare l’aborto alla guerra non è stata esente nemmeno il premio nobel per la pace Madre Teresa di Calcutta, secondo la cui belligerante opinione «oggigiorno il più grande distruttore di pace è l’aborto, perché è una guerra diretta, una diretta uccisione, un diretto omicidio per mano della madre stessa». Come non sentirsi schiacciati da tale e tanta sicumera? Già dai toni pare di assistere ad una novella Apocalisse scoppiata come un fungo atomico tra le corsie d’ospedale, nel dramma di chi rinuncia alla propria gravidanza e si vede oltretutto mancare la minima comprensione altrui. Sopraffino in questo caso il paradosso: chi si proclama seguace di un tale che una volta disse: «non giudicate e non sarete giudicati», si prende il diritto di farlo, ossia di giudicare, esattamente nel nome di lui. A fronte di una tale sublime contorsione, mentale e sostanziale, nessun retore saprebbe fare meglio.
Invece ci soccorre ancora Benedetto XVI che, tanto per ribadire il concetto, lo scorso primo gennaio è passato dalla consueta domanda retorica, ormai evidentemente reputata superflua, al sillogismo degno del miglior Aristotele. Il papa ha infatti affermato, nell’ambito del suo discorso in occasione della giornata della pace, che la maternità è «sempre stata associata alla benedizione di Dio». Ora, sappiano i fedeli cattolici nonché, vista la risonanza mediatica dei discorsi del primate della chiesa Roma, anche i fedeli non cattolici per non parlare dei non fedeli, insomma sappia l’intero orbe terracqueo che la pace «è la somma e la sintesi di tutte le benedizioni». Dunque cosa ne consegue? Se la fecondità è benedetta e le benedizioni sono pace, persino un ragazzino saprebbe tirare, assieme all’acqua al mulino papale, anche le dovute conclusioni del caso. Ma tant’è: ogni popolo ha le figure retoriche che si merita fin dalla tenerissima infanzia. C’è soltanto da sperare, come suggerisce l’umorista siciliano Panarello, che alla famosa madre dei cretini, sempre in stato interessante, venga finalmente offerto l’aborto gratis.
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