Amante del tipico piatto speziato che i nostri cugini maghrebini hanno esportato nel mondo e incuriosita dal titolo della suddetta ultim'ora, approfondisco e scopro che il comune di Bergamo ha vietato nella città alta l'apertura di negozi di alimentari cosiddetti "etnici" e che, tra le motivazioni dei promotori di questa assurda legge, figurano "la salvaguardia del decoro, della sicurezza urbana, della cultura e dell'identità locale".
Nella nostra società si opera quotidianamente, anche talora a fin di bene, un abuso linguistico ai danni della parola "etnico". La sempre preziosa wikipedia mi aiuta a precisarne il significato:
Un gruppo etnico o etnia (dal greco ithnos = popolo) è una popolazione di esseri umani i cui membri si identificano in un comune ramo genealogico o in una stessa stirpe e differenziandosi dagli altri come un gruppo distinto. Gli individui hanno spesso in comune cultura, lingua, religione, usi, costumi e alcune caratteristiche fisiche (tramandate geneticamente e dovute in parte anche all'adattamento al territorio in cui il gruppo vive).
Mi piace l'acuta precisazione "i cui membri si identificano", come se l'etnia non fosse che una scelta individuale: quando Einstein affermò che l'unica razza è quella umana, con chi si identificava? Ma, a parte questa considerazione, dal significato di "etnia" desumo che chiunque possa identificarsi in un particolare gruppo. E dunque, se il kebab è un piatto "etnico", altrettanto "etnica" è la pizza, con la sola differenza che si parla di due etnie abbastanza, quantunque non così tanto, distinte tra loro.
Secondo di poi: cosa c'entra il kebab con la "sicurezza urbana"?
I macellai islamici vanno forse in giro con quei lunghi coltelli affilati che un tempo venivano usati per tagliuzzare la carne dal rotolo, sostituiti oggidì da comode ed innocue rotelle elettriche? La risposta è, o può essere: tanto quanto i pizzaioli italiani vanno in giro con quelle acuminate forbicione che tornano assai utili per cimare il basilico senza rovinarne gli steli.
Terzo: l'identità locale.
Prima che gli scaltri mercanti veneziani commercializzassero quello che essi stessi, con una evidente operazione di marketing ante-litteram, chiamarono col nome allora alla moda di grano turco, ossia il mais proveniente dal Nuovo Continente, la polenta qui in Europa, non esclusa la città alta di Bergamo, era pura fantasia.
E che dire delle patate oggi considerate parte fondamentale della cultura gastronomica e dell'identità europea? Questo alimento si diffuse nel nostro continente solo alla fine del 1700 rendendo di fatto le patate al forno dei tedeschi, la raclette degli svizzeri, la vichyssoise dei francesi, i pizzoccheri dei valtellinesi e, financo, gli gnocchetti bergamaschi, specialità gastronomiche relativamente recenti e dunque aliene dal concetto ossessivo di "identità culturale" in nome del quale la nostra acritica e schizzinosa società si sta imprigionando con le proprie mani in una gabbia dorata ed inesorabilmente indigesta.
Dove sarebbe la nostra celeberrima e beneamata pizza senza l'apporto creativo degli americanissimi, immigratissimi pomodori?
Vedano bene, i consiglieri comunali bergamaschi che hanno promosso una legge tanto insensata, che nessun piatto, per dirla con il seicento inglese, è un'isola, ma che ogni elaborazione gastronomica degna di questo appellativo è da sempre una gustosa ed estrosa contaminazione di stili e di ingredienti diversi.
Ma non solo: dove sarebbe l'Italia se gli americani avessero vietato l'apertura delle nostre pizzerie nel loro continente? La nostra storia, dove sarebbe adesso?