In questo blog si parla spesso di lavoro e lavoratori.
Si è scritto di lavoro nero, di riposo e primo maggio, di lavoratori esasperati, di lavoratori sorteggiati e chi più ne ha più ne metta, considerando tale elenco disgraziatamente solo parziale.
Non è un bene parlare così frequentemente di lavoro: tanto meno quando si tratta di lavoro negato e lavoro disperato. Il contrario del lavoro che nobilita l'uomo insomma, e anche il contrario, ahinoi, del lavoro come inteso dai nostri benevoli e un po' ingenui padri costituenti.
Questa constatazione è amara nella giornata di oggi che guarda caso sarebbe il giorno internazionale contro la schiavitù.
Che cos'è, se non schiavitù, questo continuo vedere giovani disoccupati, anche laureati, allo sbando e alla disperazione, che accettano lavori ben oltre il limite dello sfruttamento? Uno spettacolo che fa male. E non tanto agli occhi quanto alla democrazia.
Amara constatazione oggi che la schiavitù, messa giustamente alla porta, rientra senza tanti complimenti dalla finestra. Amara constatazione oggi.
Oggi, guarda caso, ci arriva dalla storia un altro monito imperituro: la vicenda drammatica di Sacco e Vanzetti, due anarchici innocenti mandati a morte sostanzialmente per aver gridato forte i diritti dei lavoratori in un periodo in cui il sindacato era all'alba mentre oggi appare inesorabilmente al tramonto.
Un periodo speculare al nostro. Un periodo nel quale rischiamo di ripiombare da un momento all'altro. O dopo una discesa agli inferi che è ormai sotto gli occhi di tutti.
Disse Vanzetti: "io non augurerei a un cane o a un serpente, alla più bassa e disgraziata creatura della terra ciò che ho dovuto soffrire per cose di cui non sono colpevole. Ma la mia convinzione è che ho sofferto per cose di cui sono colpevole. Sto soffrendo perché sono un radicale, e davvero io sono un radicale".