E' precario, delicatissimo l'equilibrio tra il pianeta e gli esseri umani che lo abitano e lo custodiscono. O quantomeno dovrebbero. Non fosse altro che per il proprio interesse personale. Finché siamo al mondo, custodi del mondo, siamo il mondo. Figli del mondo.
Teologi e scienziati hanno trovato un tratto unitario nel denunciare la rapacità dell'uomo (e anche, duole dirlo ma è così, della donna) nei confronti della terra: un rapporto morboso e difficile, in cui trovano spazio riflessioni di fede che restano inapplicate, esagerazioni razionalistiche, fanatismi ecological-chic e quant'altro.
Mi colpisce l'indifferenza di noi tutti verso il problema ambientale. Che è poi un problema umano, perché noi non siamo disgiunti dalla terra che popoliamo ma ne siamo parte, da essa proveniamo e in essa ritorniamo: ed è questa una evidenza tanto teologica quanto scientifica.
Abbiamo un bell'inquietarci quando il pianeta ci mostra il suo vero volto: un volto incontrollabile. Possiamo erigere edifici antisismici e arriverà l'onda anomala; possiamo proteggerci dagli uragani e arriverà il terremoto. Possiamo costruire le centrali nucleari più sicure al mondo, il vanto dell'umana razionalità, e in poche ore la furia degli elementi rende precaria la nostra immediata sicurezza personale prima ancora di rimettere in discussione la nostra innata fede nel progresso.
E noi (forse i giapponesi adesso no, ma noi italiani ancora sì) poniamo l'attenzione su tematiche grottesche: come e quando permettere o impedire di morire con decenza; chi deve o non deve inseminare chi altro nella procreazione medicalmente assistita; chi può o non può fare sesso con chi altro, e via dicendo.
E in questo modo, atteggiandoci a moralisti artefici del nostro presente, passato e futuro, perdiamo di vista la nostra autentica dignità di fondo: cioè la consapevolezza di essere un grano di sabbia.
Una canna al vento.
Un punto nell'immenso spazio.
Qualcosa che oggi c'è e domani chissà dove sarà.
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